La figlia di Shakespeare

Il primo capitolo del nuovo romanzo di Paola Musa

 

 

Quella sera sarebbero stati presenti proprio tutti al ristorante “La tarantola”, dal primo attore al macchinista. Perché aveva finalmente di che festeggiare, il Global, teatro più importante della città, finita la stagione, per merito di Alfredo Destrè, famoso ex attore nominato tre anni prima suo direttore artistico. Destrè era riuscito, oltre ogni previsione, a restituire se non l’antico prestigio, almeno un alone di dignità a una forma d’arte minacciata da icone televisive non sempre di prim’ordine, capaci, certo, di fare botteghino con comicità grossolane e crasse risate, ma non certo all’altezza di proporre spettacoli degni di restare nella storia.
Il vecchio attore aveva ovviamente ponderato con molta cautela e apprensione i rischi di un fallimento, prima di accettare l’incarico. Non amava certo fallire o esporsi a facili critiche. Sapeva benissimo che non sarebbe stato sufficiente il suo nome, o una carriera di quasi cinquant’anni, ad arginare il pericolo di un insuccesso. E non era certo disposto a diventare capro espiatorio di decenni di cattiva amministrazione pubblica, o a farsi additare dai veri responsabili con giudizi del tipo: ecco, non è riuscito nemmeno un cavallo di razza come lui a salvare le sorti di un teatro così importante, la colpa in fondo sta tutta nel cattivo gusto della gente e nella televisione, e se non ha potuto uno come Destrè non si può fare proprio nulla. È davvero finita.
Aveva pertanto cercato di fare leva su ciò che restava della sua grinta giovanile, quella sicurezza tronfia e a tratti spericolata che un tempo gli aveva consentito di fare passi da gigante inaspettati, nel suo lavoro. E mettendo da parte la senile propensione alla cautela, che fino allora lo aveva condizionato su certi modi eccentrici di rappresentare il teatro classico, si era alla fine fatto venire un’idea. Occorreva soltanto far digerire un necessario compromesso.
Certo, non aveva potuto rinunciare del tutto ai gusti della modernità e alle esigenze del nuovo pubblico, considerate la crisi in cui versava il settore e la minaccia di fallimento, che ogni tanto i bilanci esibivano in maniera più fragorosa di mille applausi. E sicuramente non aveva potuto giocare la propria scommessa con un’idea del tutto originale.
Non c’era, in effetti, nulla di nuovo nel suo progetto, giacché erano già state messe in scena nel corso degli ultimi decenni versioni moderne e di discreto valore, sia delle commedie sia delle tragedie. Solo che nessuna, di quelle recenti cui aveva fino allora assistito, sembrava all’altezza: le rivisitazioni si riducevano a spuri tentativi di compagnie tanto anonime quanto sperimentali, qua e là, nel territorio, alla disperata ricerca di attenzione, che tentavano di sopravvivere attraverso la continua riproposta di titoli noti.
Il clima culturale, lo sapeva fin troppo bene, era da sempre poco propenso ad accettare i testi originali di giovani drammaturghi sconosciuti. Così, alla fine, quasi tutte le compagnie preferivano cimentarsi in sperimentazioni sui classici, capaci di suscitare l’interesse di qualche critico, o quantomeno di attirare l’attenzione dei grandi quotidiani i quali, a dire il vero, dedicavano loro giusto qualche trafiletto nella pagina degli spettacoli, e solo se avanzava dello spazio.
La furbizia consisteva, quindi, nel legittimare le piccole realtà già esistenti che faticavano a conquistare il grande pubblico, accorparle nel modo migliore possibile e rendere ufficiale in modo definitivo la commistione di classico e contemporaneo.
Occorreva, insomma, sottrarre un certo modo di fare teatro allo sporadico, pensava, e organizzare una rassegna seria e metodica; puntare in pratica sul vecchio, che tutti conoscevano, ma rivestendolo a nuovo. Bisognava inoltre giustificare la tecnica spesso audace di registi in cerca di attenzione ma senza un’autentica visione d’insieme, ed ergerla a nuova cifra stilistica dell’uomo contemporaneo, che più manifesta le proprie contaminazioni culturali, più è profonda e interessante.
Destrè doveva infine puntare, per raggiungere senza troppi rischi l’obiettivo, su un repertorio ben noto a tutti, non troppo distante dal sentire moderno e di fama universale, come il teatro elisabettiano di Shakespeare, per esempio. Oh sì, proprio lui. Il suo primo amore. Perché l’amore, si sa, è capace di trasformare e nobilitare tutte le cose. L’amore, certo, ma soprattutto il marchio del grande bardo.
Destrè aveva sufficiente esperienza per capire che certi fenomeni acquisiscono realtà soltanto se c’è qualcuno di noto e dotato di carisma a consacrarli. Che occorre una personalità d’indiscutibile esperienza e autorevolezza, soprattutto di chiara fama, per sdoganare il nuovo e inserirlo nei codici di gradimento già acquisiti. Lui la sua fama di attore puro rischiava invero di perderla: a maggior ragione, la sfida diventava quanto mai necessaria.
Era tuttavia consapevole che una scommessa sul proprio talento non sarebbe bastata, perché i tempi erano profondamente cambiati.
Bisognava agire con astuzia, dimostrare con ostentata sicurezza che in quelle contaminazioni si rivelasse davvero un’irrefutabile grandezza, che trasparisse, insomma, il colpo di genio – soprattutto il suo – affinché i puristi e gli autentici cultori di Shakespeare non si sentissero offesi, bensì rinnovati nello sguardo. Voleva dimostrare che la cultura, di cui egli si faceva portavoce, nonostante e a dispetto dei suoi bizzarri travestimenti-travisamenti, poteva essere ancora viva e quindi in un certo senso, irriducibilmente classica ed eterna.
E per questo alla fine aveva accettato la sfida di prendere le redini di quel modo irrequieto e un po’ sconclusionato del fare contemporaneo: proprio per difendere, a suo dire, l’opera classica dalle insidiose volgarità di chi tentava, senza un chiaro disegno di senso, di profanarla.
Naturalmente tutta l’operazione era anche l’occasione che aspettava da molto tempo: il mezzo che poteva consentirgli di rilanciare, finalmente, la sua immagine e di conquistare, definitivamente, il posto che gli spettava nel mondo del teatro. 


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