La chimera di Vasari
PROLOGO
Aritim, 398 a.C.
Il liquido infuocato scorreva entro l’argilla come il sangue nelle vene di un giovinetto. Veloce, senza intoppi, meravigliosamente fluido.
Larth, alto sullo sgabello di legno, sovrintendeva la squadra di artigiani che lo aveva aiutato nelle opere preparatorie. Gli sguardi degli uomini coperti di sudore e di fumo passavano alternativamente da lui alla colata incandescente. Pronti a ogni suo minimo cenno, rapidi ad aggiungere rame o stagno a seconda della bisogna. Il disegno, la realizzazione del modello in cera d’api, la minuziosa formatura delle linee, la maestosità del gruppo statuario. Tutto era frutto dell’impegno comune, diretto dalla sua guida e corroborato dai suggerimenti degli altri.
Ma la formula del bronzo era soltanto sua. Suo era il segreto dell’esatta proporzione tra il rame, ottenuto dalle miniere dell’isola a poca distanza dalla costa, e lo stagno, che solo Tinia sapeva quanto fosse costato. Quei maledetti Fenici, con i quali si era trovato più volte a trattare, gli avevano estorto un prezzo esagerato, ma il risultato dell’opera lo avrebbe ripagato di tutta la fatica e di tutto l’oro speso. Nessuno in Etruria avrebbe avuto statue più belle. Il tempio a esse dedicato sarebbe stato meta di pellegrinaggi e di sacrifici da parte di genti in arrivo da ogni dove. Il suo nome sarebbe stato ricordato dagli dei e dagli uomini. La prima statua, ancora più grande di quella che stava prendendo forma davanti a Larth, tra vampe di fuoco e scricchiolii di terra refrattaria che gemeva violentata da tanto impeto, era già pronta. Quattro apprendisti armati di scalpelli di ferro stavano limando le imperfezioni, lisciando le giunture di fusione, ripulendo l’argilla cotta rimasta all’interno dei sottosquadra. Era magnifica! Ma per la seconda, aveva dovuto ricorrere alla sua fantasia. Per il mostro che stava nascendo, non aveva avuto modelli naturali da copiare. Solo parti diverse, assemblate dal suo genio. La bocca fiera, il capro ferito, il serpente che tentava di mordere il suo assalitore, tutte assieme inserite in un corpo mai visto per possanza e torsione nello spazio. I maestri greci, dai quali aveva imparato l’arte della fusione, non avrebbero saputo fare di meglio. Il suo grido echeggiò nell’officina satura di vapori: «Ancora fuoco, per gli dei, che scorra, che scorra bene!»