La bella virtù
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Carla
Pisa, 2019
Nel 2010 mio padre si ammalò: tumore al pancreas. Aveva 85 anni, non era giovane ma neanche poi tanto vecchio, avrebbe potuto vivere ancora cinque, dieci anni, e soprattutto io non ero pronta. Non ero pronta a perderlo. Era l’uomo che amavo, l’uomo della mia vita. Certo, avevo mio marito e mio figlio, e amavo moltissimo anche loro, ma con mio padre non c’era gara. E dire che non era neanche particolarmente amabile: non importa. Mi bastava vederlo là, sulla sua poltrona, le mani piene di macchie, il viso ancora bello, il neo in rilievo sotto l’occhio destro che era diventato un’escrescenza un po’ ripugnante, le labbra sottili, la sigaretta in mano, per sentirmi stringere il cuore.
A dispetto di quel che si dice, che negli anziani il cancro proceda con lentezza («Farà prima a morire di vecchiaia», diceva la saggezza popolare, come se poi di vecchiaia si morisse), il suo agì con determinazione e rapidità, riducendolo in pochi mesi a un mucchietto d’ossa e portandolo a finire i suoi giorni nella disperazione. Ero l’unica a potermi prendere cura di lui e di mia madre: mio fratello Piero, il primogenito, era morto giovane, in un incidente di moto, e mia sorella di mezzo, Gaia, viveva in Canada da molti anni. C’ero soltanto io, la piccolina di casa, e a me toccava assumermi l’onere. All’epoca lavoravo, insegnavo Storia all’Istituto Tecnico, e ovviamente avevo anch’io una famiglia, perciò il tempo che potevo dedicare ai miei genitori non era molto, ma cercavo di farmelo bastare. Prendevo gli appuntamenti, andavo in farmacia, facevo la spesa, accompagnavo mio padre alle visite mediche, e non passava giorno senza che facessi una scappata da loro, nella vecchia casa in cui avevo abitato anch’io, prima di sposarmi.
Da che ho memoria, erano sempre stati inseparabili: a parte quando erano al lavoro, erano insieme, simbiotici, appiccicati come cozze, e passavano il tempo a darsi sulla voce l’un l’altro. Infinite erano le ragioni per cui discutevano, dall’educazione dei figli a cosa preparare per cena, al nome della persona che avevano incontrato per strada e li aveva salutati, alle esatte parole che aveva pronunciato un politico alla televisione. Erano entrambi testardi e ognuno si accaniva sulla sua idea senza cedere di un millimetro, per quanto brillanti fossero le argomentazioni portate dall’interlocutore. Era il loro modo di stare insieme, un modo come un altro, che io avevo sempre trovato terrificante, ma che indubbiamente presentava notevoli vantaggi: tenere vivo il rapporto, avere sempre qualcosa di cui parlare, esercitare l’arte della retorica, scongiurare il pericolo di cadere nell’afasia e nella demenza.