“La bambina dagli occhi d’oliva” su Foggia Città Aperta
Tra senso di colpa e “inadatti”, passando per Dolores O’Riordan: il nuovo romanzo di Davide Grittani
Dal 2 settembre, “La bambina dagli occhi d’oliva” (Arkadia)
Dopo “La rampicante” (LiberAria), romanzo vincitore di premi e molto apprezzato dalla critica, Davide Grittani torna alla narrativa con una storia forte che indaga il rapporto tra memoria e infanzia, raccontando “una violenza di cui si parla sempre poco e male”. Il titolo del libro è “La bambina dagli occhi d’oliva” (Arkadia) e sarà nelle librerie di tutta Italia il prossimo 2 settembre. In anteprima, abbiamo intervistato lo scrittore e giornalista foggiano.
Partiamo dalla dedica a Dolores O’Riordan, perché?
«Stavo scrivendo il romanzo, ero agli inizi ma lo stavo già scrivendo. Non so gli altri, ma quando scrivo mi “bombardo” di musica. Molte volte fino allo sfinimento. Creo intorno a me una specie di corazza musicale, una camera stagna in cui rimbalzano sempre le stesse note. E il pezzo di cui stavo abusando era Zombie dei Cranberries, con la voce soffice tuttavia violentissima di Dolores O’Riordan. Poi qualche algoritmo mi ha improvvisamente deviato verso le interviste realizzate in occasione della sua morte, avvenuta in una circostanza quasi incredibile all’interno di una stanza d’albergo. E mi hanno catturato le drammatiche parole pronunciate dalla madre, nello specifico quelle sulla dinamica della morte di Dolores: affogata in 30 centimetri d’acqua. Qualcosa del tipo “non avrebbe mai dovuto lasciare la placenta, adesso è tornata all’acqua da cui è nata”. Ho cominciato a scoprire molte cose su di lei, a leggere tutto ciò che potevo della sua vita, in inglese e direttamente dai giornali inglesi. Ho cominciato a scoprire che tipo di infanzia avesse avuto, quali atroci sofferenze avesse dovuto sopportare. E man mano che andavo avanti capivo che Dolores non era solo una straordinaria cantante, ma anche un piccolo agnello di questi tempi guastati. Il suo grido di dolore è diventato la dedica del mio romanzo».
Raccontare una violenza, in letteratura, è sempre insidioso. C’è un momento, un’immagine o addirittura un evento che ha generato in te la necessità di farlo?
«Mi interesso da sempre ai temi dell’infanzia, mi viene naturale essendo padre di tre figli. Ma rivendico con forza, e se possibile anche con rabbia, il fatto che questo non sia un romanzo sulla pedofilia ma sui sensi di colpa. Un romanzo sull’autoassoluzione degli adulti rispetto alle loro responsabilità, un libro cominciato esattamente quando sentivo un adulto – per strada, in televisione, al mercato o dovunque – pronunciare le parole della resa: “abbiamo fatto di tutto per salvarlo, ma non ce l’abbiamo fatta”. Quel “tutto” evidentemente non era abbastanza, e questa abitudine degli adulti di sottrarsi alle responsabilità del proprio ruolo deve finire una volta per tutte. Cosa c’entra col libro? Nel libro, ma anche nella vita di Dolores O’Riordan, la bambina che subisce violenze e abusi viene accompagnata per mano e con dolcezza dal suo aguzzino, viene consegnata nelle sue mani. Ecco perché le responsabilità dei giusti e dei saggi, delle persone perbene, non sono inferiori a quelle dei carnefici. Tornando all’immagine che mi chiedi, è quella in cui i genitori di Dolores – per poter andare a lavorare – accompagnano dal vicino di casa la loro piccola: per 8 anni si è perpetuata una violenza in qualche modo autorizzata dalla sua famiglia, che avrebbe dovuto accorgersene … ma, come dicevo, non ha fatto abbastanza».
Sandro Tanzi è il gestore di un centro scommesse che passa allo scanner chi ha di fronte. Ma se volessimo invertire l’operazione e passare lui allo scanner?
«Anche lui è uno zombie, come quelli che incontriamo in ascensore e puzzano di naftalina, o quelli che al supermercato ti stanno accanto per tutto il tempo della fila e poi piazzano il guizzo vincente presentandosi alla casa qualche metro prima di te. Ecco, ci sono persone che vivono di questo e per questo. Sandro è un erede, uno che ha preso tutto quello che i genitori gli hanno lasciato, compreso la loro infelicità. E dentro il pozzo oscuro di questo personaggio, a mio avviso estremamente letterario, c’è lo specchio di quello che vorremmo vedere al posto delle nostre facce: le madri che non riusciamo ad assistere e parcheggiamo nelle case di cure, le donne che non riusciamo ad amare e preferiamo insultare, il nostro prossimo che non riusciamo a rispettare e preferiamo demolire a colpi di calunnia. Facci caso, non so a che piano abiti tu. Quando salgo in ascensore con qualcuno è un continuo “editing” della vita di tutti i giorni, quel “niente da dirsi” per un viaggio lungo un minuto è in realtà il vuoto che Sandro Tanzi tenta di riempire attraverso i mostri che si è imposto di dominare (al suo centro scommesse, NdA). Ci siete mai stati in una sala scommesse? Andateci, vi renderete conto che l’umanità è più varia – e purtroppo molto più in crisi – di quello che si crede».
Restando sul protagonista, possiamo dire che la sua figura ricorda i grandi “inetti” della letteratura raccontati da autori come Svevo e Tozzi?
«Non disturberei esiti così nobili, quelli fanno parte della Letteratura mentre noi facciamo solo narrativa. Sandro Tanzi è certamente un inadatto, uno a disagio anche dentro lo stesso mare del disagio. Uno che parla con Alexa. Uno che di fronte all’arrivo di una donna (la protagonista femminile del romanzo, Angelica Capone; NdA) si scioglie come neve al sole, come se avesse visto un extraterrestre. Uno che di fronte alla vita vera di strada non sa che fare, come reagire. Come quei gatti che abbiamo sempre tenuto in casa e che, quando scendono per strada, si accorgono improvvisamente di essere nati come felini, predatori ai quali è stato sottratto ogni istinto di sopravvivenza. Insomma, uomini con la sordina come i pianoforte che vorrebbe suonare ma si trovano al terzo piano di un condominio di anziani. Del resto se c’è una cosa che si può dire della attuale condizione umana, è che mi pare abbastanza separata tra protezione della propria comfort zone e sopravvivenza: due cose che insieme non possono stare, collegate solo dal mare della disperazione. Tanzi è un marinaio come tutti, un uomo inadeguato che non si accorge di essere inadeguato».
Dal libro: “I centri scommesse sono camere oscure in cui ognuno sviluppa le sue depravazioni”. Il Winner è una delle location principali del romanzo: una scelta che è anche un tema, come mai?
«Ho visitato diversi centri scommesse in diverse città italiane, quando ho potuto. Entravo e subito mi osservavano, ero uno straniero e agli stranieri non si perdona niente. Nemmeno le buone intenzioni. Se ne accorgevano presto che ero lì per curiosare, che quello non era il mio posto ma il mio davanzale. Cosa intendo dire? Che mi attraeva moltissimo il materiale umano che sentivo di poter trarre da quei luoghi, da quei gironi infernali in cui tutto è concesso. Eppure, lì dentro, ci sono persone normalissime alle quali è successa qualcosa: un debito andato in malora, un rapporto affettivo, un posto di lavoro saltato gambe all’aria, un punto di rottura che ha trasformato le loro vite – fino a qual momento così solide e protette – in una tragedia a cielo aperto. Più che giustamente non ci occupiamo continuamente dei naufragi che avvengono per mare, ma ci sono tanti altri naufragi che avvengono ogni giorno tra la gente comune che si lascia andare, che chiede intenzionalmente di affogare e di non essere salvata. Ecco, di questi destini si occupano sempre meno la nostra narrativa e il nostro cinema, ripiegati ormai su concetti ripetutamente onanistici. A me piace studiare e scrivere di quello che avviene nella testa delle persone, quando si accende la miccia che li rende degli ordigni sociali. Quello che succede nei centri scommesse è davvero molto interessante, assistere a come delle persone affidino tutta la loro dignità e tutti i loro averi nelle mani della fortuna non ha solo a che fare con la disperazione … ma anche con quello che siamo diventati, ogni giorno più estranei al nostro destino. Come dire, un gol di Ronaldo può decidere per noi. Mentre noi non siamo niente, assolutamente niente, per Ronaldo. È crudele, ma vero».
A fare da contraltare al protagonista è Angela/Angelica, un personaggio che fino alla fine resta a mezz’aria. Come si potrebbe definire la sua figura?
«È una sopravvissuta, una che mette paura perché non ha più alcun timore di morire. È un personaggio di una forza e di un coraggio straordinari, secondo me la vera chiave del romanzo. È lei che detta i tempi della scoperta, lei che traccia le trame del passato e del presente. Lei che possiede l’intero romanzo, lo detiene nel bene e nel male. Lei, con questi occhi straordinariamente strani, occhi d’oliva … come quelli di Dolores. Mi sono divertito moltissimo a scriverlo, a raccontare di questa donna bella al contrario dei canoni estetici occidentali … una donna narrata per sottrazione, in cui il mistero si fa carne progressivamente come una specie di traslazione laica».
Il romanzo è ambientato a Roma e questa non fa solo da sfondo alla storia, giusto?
«Avevo ed ho troppo rispetto per Roma per potervi ambientare anch’io un romanzo, quindi ho pensato che la cosa migliore fosse restituirle il giusto pudore e la giusta fantasia. La città è svelata in ogni passaggio, in ogni pagina, in ogni atmosfera, ma non ne faccio mai il nome, non dico mai dove siamo. Mi è parso un modo per restituire rispetto a una città che ormai per gli Italiani non è più una città, ma un ologramma per fanatici e feticisti. E poi l’ho fatto per omaggiare il vero ispiratore della sua ambientazione, che è il grande Dario Argento. Il quale – una sera a Roma, al termine di una presentazione de La rampicante a cui era capitato trascinato da altri amici – mi raccontò che in via Crescenzio a Roma, dal 1972 al 1978, si era verificato un episodio molto strano che forse inconsciamente poteva essere stato l’ispirazione del suo film capolavoro Profondo rosso: durante i lavori di ristrutturazione di un appartamento nobiliare, sotto la carta da parati erano comparse dei disegni inquietanti che riconducevano a possibili abusi nei confronti di bambini. Ecco, tutto è cominciato da lì …».
La memoria e l’infanzia: è qui che si gioca la partita di ognuno di noi?
«“Quello che facciamo ai bambini resta per sempre”. Questa frase è la quarta di copertina del romanzo, ma non si tratta solo di una suggestione letteraria quanto di una verità che sento e avverto profondamente. Purtroppo ai bambini facciamo di tutto, nessuna lezione ci rimane addosso – scusate il gioco di parole – come una lezione, nessun insegnamento sembra sufficiente a farci capire che la materia dell’infanzia è assai delicata e plasmabile, che eventuali traumi e condizionamenti dell’adolescenza posso incidere profondamente nel carattere di una persona. Non si tratta solo di memoria e infanzia, ma torno a dire di responsabilità. Basti pensare al modo in cui la Puglia, la nostra regione, ha affrontato il nodo della scuola ai tempi del Covid-19: presentando il conto da pagare unicamente ai bambini, rinunciando a qualsiasi responsabilità e sottraendosi a qualsiasi peso politico e sociale. Tutto addosso ai bambini, chiedendo a persone tra i 6 e i 12 anni di risolvere cose che la classe politica e dirigenziale non hanno saputo nemmeno affrontare, figurarsi risolvere. Ecco, ai bambini vengono affidate tutte le rogne del nostro disprezzo, tutte le risultanze del nostro modo malato di stare al mondo. Sui bambini vengono scaricate le infelicità e le inadeguatezze di un modo, quello adulto, che non è più riferimento, insegnante, modello. Sulle spalle dei bambini addossiamo il peso dei nostri fallimenti».
Da La rampicante (Liberaria) a La bambina dagli occhi d’oliva (Arkadia). Ambientazioni alto-borghesi, nodi familiari irrisolti e tematica sociale mai sopita: elementi che ritornano con forza in entrambi i libri. È questa la strada dello scrittore Davide Grittani?
«Sinceramente non credo in una strada, piuttosto credo in quello che faccio. Cioè nella necessità di raccontare – anche attraverso le mie esperienze personali, come Written in Italy e l’antologia di reportage narrativi Dispacci Italiani – un Paese che sfugge agli occhi di tutti. Non appartengo alla disputa “romanzi tratti dalla cronaca: favorevoli o contrari”, appartengo a quelli che pensano che dalla vita di tutti i giorni si possano trovare indicazioni per capire molte cose del mondo e degli uomini. Ci fa star male raccontare di abusi sui bambini, fa star male me per primo. Ma succede, ogni giorno in ogni angolo del mondo. Non parlarne non aiuta a migliorare le cose, scriverne invece apre dibattiti e genera prese di coscienza. Prima de Il Branco di Andrea Carraro lo stupro in Italia, nella civilissima Italia, era considerato un reato contro la morale e non contro la persona: oggi lo stupro è un reato abominevole, se qualcosa è cambiato lo dobbiamo alla forza di un romanzo straordinario che ha cambiato per sempre la narrativa italiana. Non sono un borghese e non vengo da una famiglia borghese, tutt’altro. Ma mi colpiscono molto l’indolenza con cui molte famiglie italiane (perlopiù borghesi, NdA) fanno finta di non accorgersi della trave che hanno negli occhi perché troppo impegnati a considerare la pagliuzza in quelli degli altri. È stato così, con questo atteggiamento bigotto e provinciale, che l’Italia si è persa per strada pezzi interi di cattolicesimo e cristianesimo, lasciando che la religione diventasse punizione e non speranza. Nel romanzo ci sono passaggi molto precisi, oserei direi accuse molto circostanziate, contro la religione cattolica, contro i “danni che che fanno le preghiere” e contro l’odio che certi estremismi (non solo quelli islamici, ma anche quelli cristiani; NdA) possono causare. Dentro le fessure di queste società palesemente malata, a me piace guardare con attenzione e con un pizzico di morbosità: io sono figlio di questo tempo che riesce solo a mentire, in cui terribili casi di cronaca sono così frequenti che nell’impaginazione dei tg li mettiamo subito prima degli spettacoli. Penso che raccontare le mura del vicino equivalga ancora a raccontare i confini del mondo, di questo resto profondamente convinto. La mia scrittura? Scrivo sotto costante indignazione, scrivere è rifiutarsi di obbedire. Non conosco altri modi».
Il link all’intervista su Foggia Città Aperta: https://bit.ly/3t64kRG