La bambina dagli occhi d’oliva
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Venti secondi, trenta al massimo. In questa lama di tempo devi capire chi hai di fronte. Cosa l’ha portato da te. Cos’è venuto a fare. Che vuole, veramente. Come i sacerdoti dietro la grata del confessionale. Le prostitute sul ciglio della strada. I medici a colloquio con i parenti dei pazienti. Pochi istanti, entro cui devi stabilire se sopravvivrai a quell’incontro.
Sono diventato un certificatore di deformazioni. Passo le giornate a guardare mostri che trascinano enormi masse tumorali, eruzioni polimorfe sfuggite al controllo del corpo, cicatrici che hanno deturpato aspetto, parole e comportamenti di chi conduceva una vita normale e all’improvviso è imploso. Perché spesso il brivido del rischio è solo un pretesto. Nella testa di chi frequenta i centri scommesse si nasconde il desiderio di trasmetterti un po’ di quel disagio, di contagiarti quella febbre subdola e pustolosa da cui non si guarisce. E quando ne incontri uno così, animato da quella ossessione, in pochi secondi devi capire se obbedirà all’istinto o lo sopprimerà nelle slot machine. Non puoi sbagliare, sei l’ultima uscita prima della fine della strada. Se li tradisci anche tu, con qualche eccesso di normalità, qualche licenza che sfugge al lessico muscolare di questi ambienti, finisce che reagiscono male e non sai quello che potrebbe succedere. Ma non puoi nemmeno dargli troppo spago, ascoltarli all’infinito, mostrarti inadeguato al ruolo che hai scelto. Allora assumi un atteggiamento prefettizio, né troppo distante né scarsamente coinvolto, una maschera che nessuno può permettersi di oltraggiare perché tenerti in vita è il loro modo di restare in vita. Tanto, prima o poi, qualcosa, un gesto, una parola o un lungo silenzio, ti ricordano che l’unica ragione per cui hai deciso di dividere le giornate con questi zombie è il denaro. E sfilarglielo dalle tasche, mentre urtano tra loro, confusi e inebetiti come in quel video di Michael Jackson, procura un piacere difficile da descrivere se non sei mai stato qui. Almeno una volta, nella corsia di questi malati terminali di gioiose solitudini.
Poco più di due anni fa mi è venuta incontro l’opportunità di subentrare nella gestione del Winner, una sala giochi nel quartiere in cui sono nato e cresciuto. Prima di andarsene mio padre ha pensato a tutto, tramandandomi un’educazione borghese che ho quasi completamente seppellito ma soprattutto una quantità di soldi sufficiente ad assistere mia madre e mettere al sicuro anche me. Nel senso che questo centro è diventato un’occasione, un modo come un altro per debuttare nel mondo del lavoro all’imperdonabile soglia dei quaranta. Non avendo mai partecipato a un concorso, non avendo mai spedito un curriculum, non frequentando l’universo delle relazioni sociali da cui mi sono sempre sentito respinto, ho deciso di provarci. In mezz’ora e sedici firme ho rilevato la licenza e i locali che ospitano la ricevitoria, così la prima volta che ci sono entrato è coincisa con il giorno in cui ne sono diventato proprietario. In tutta sincerità, pensavo di aver messo le mani sotto una cascata d’oro. Tra calcio, motori, wrestling, ippica e qualsiasi altro evento produca le endorfine dell’azzardo, pensavo che avrei incassato un sacco di soldi senza produrre il minimo sforzo. Stando ogni giorno a contatto con chi è convinto che prima o poi gli accadrà qualcosa di straordinario, credevo sarebbe stato agevole governare la dipendenza da algoritmo di questi tossici solo un po’ meno tristi di quelli veri. Insomma provavo a darmi coraggio, a convincermi di aver fatto la cosa giusta, ma la verità è che niente, e intendo dire veramente niente, avrebbe potuto prepararmi alle categorie umane con cui ho accettato di avere a che fare. I centri scommesse sono camere oscure in cui ognuno sviluppa le sue depravazioni, immergendo la pellicola della vita che avrebbe desiderato dentro il catino di quella che conduce. E le foto stampate tra queste mura non temono l’umiliazione del tempo, sono immortali come i sensi di colpa.
Per imparare a riconoscerli ho messo a punto una tecnica personale, un’invenzione che mi permette di distinguere i clienti normali da quelli pericolosi. Consiste in uno scanner umano, un ecografo facciale con cui leggo la storia di chi ho di fronte. Non so spiegarlo meglio di così. In quei venti, trenta secondi al massimo, riesco a scansionare prossemica, respiro, sudorazione e labiale di chi sta dall’altra parte dello sportello, classificandolo in precise razze antropologiche o creandone di nuove quando non riesco a inquadrarlo come vorrei. La mia testa è un hard disk di non so quanti terabyte, contiene tutti i file archiviati durante questi due anni e poco più, ma a forza di fotografare zombie sto cominciando a credere che questa sia l’unica vita possibile. Così, quando la convinzione di essere stato scelto per una missione mistica comincia a vacillare, lo scanner percepisce le mie esitazioni e si accende da solo. Centrando l’ovale di chi sta dietro al vetro antiproiettile, unto dalle impronte lasciate dai clienti nel tentativo di toccare la fortuna.
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Scarsi sessanta, apparentemente distinto, camicia stirata prima di uscire, nessun alone sotto le ascelle, per venire qui ha guidato con l’aria condizionata, gioca solo per giocare, almeno così sembrerebbe, tradisce un po’ d’impazienza, forse ha perso dei soldi e vuol rifarsi, forse si sta curando e questo pomeriggio è solo una trasgressione, una fuga dalla terapia, non sembra un giocatore seriale, ma non sembra nemmeno così a posto come vorrebbe far credere, alla fine perde altri settanta euro, poi prende e se ne va, senza salutare, come tutti.
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Qui lavoravano in tre, adesso ci sto solo io. Non voglio nessuno tra i piedi. Forse perché non saprei occuparmi di nessuno, certamente perché non voglio pensare a nessuno. In mezza giornata sono passato da disoccupato a padrone, da conformista purosangue a imprenditore senza scrupoli. Mi sono dato una regola, nessun dolore. Per sopravvivere in questo posto ho adottato l’unico insegnamento che garantisce concrete gratificazioni, la dottrina dell’Insert Coin. I clienti valgono quanto spendono, molte volte nemmeno quello. Io sono l’interruttore che accende i loro difetti, lo specchio delle loro malformazioni. Mi pagano per trascurarle, per assolverli. Così anche se questo carcere mi reclude per dodici ore al giorno, quando liquefatto e senz’anima rientro nella casa lasciata dai miei, non faccio domande, non rincorro spiegazioni, ritrovo tutto com’è sempre stato, tavolo e sedie, mobili e quadri alle pareti, e tutto mi ricorda che questa inerzia l’ho attesa per anni, l’ho protetta con cura. Compresa Alexa, che accende le luci nel corridoio e mi ricorda chi sono, quando lo dimentico.
«Bentornato, Tanzi.»