Kaiser

Il prologo e i primi due capitoli del romanzo di Marco Patrone

 

Germania segna il 3-0 e un bimbo scoppia a piangere disperato. Il pensiero va alla finale Brasile-Uruguay di sessantaquattro anni prima. Nessuno se l’era immaginata così.
Il Brasile di questa sera è una squadra morbida come il burro, spaurita, femminile come i lineamenti di David Luiz che si aggira con gran scuotimento di capelli, una squadra che assomiglia pochissimo al suo allenatore Luiz Felipe “Gene Hackman” Scolari.
Nessuno se l’era immaginata così, tanto che c’è la tentazione (storica, si potrebbe dire) di dare la colpa ai tedeschi che insistono e infieriscono sul corpo già fiaccato dei verde-oro. Ma questo Brasile i gol se li fa quasi da solo e il bambino ha ragione a piangere disperato, perché il peggio deve ancora arrivare.
L’ex-calciatore guarda e gli dispiace un po’ per il bimbo ma – rimane fedele ai suoi principi – gli dispiace di più per se stesso. Non che lui abbia qualcosa a che fare con quella finale. È stato calciatore, ma gli verrebbe da dire che ha tifato veramente solo per il Botafogo e anche di quello si ricorda solo vagamente. Il calcio non è mai stata la sua passione.
Gli dispiace per se stesso e per come è finito, non perché sia finito particolarmente male ma perché anche lui se l’era immaginata diversa. Dei suoi tempi da calciatore gli sono rimasti un paio di ricordi sorridenti e alcuni numeri di telefono in agenda, ex-compagni che chiama e chiamano sempre meno. Comunque, ce ne sono alcuni fi- niti peggio, molto peggio di lui.
Per esempio Berg – vero nome: Ninimbergue dos Santos Guerra – è morto d’infarto giocando a calcio con alcuni amici; uno dei suoi ex-compagni guida un taxi, un altro vende bibite in un chiosco nel quale lui ha investito qualche real, altri invece hanno trovato una traiettoria più coerente: allenatori, procuratori o semplicemente – come il vecchio Renato – hanno accumulato molto denaro e ora si dedicano con disciplina a spenderlo come meglio possono.
Guardandosi allo specchio, vedrebbe un uomo in buona forma fisica, ma con quel colore oleoso e quella pelle che ha perso tonicità, elasticità, tipica di un cinquantenne che ha dato troppa importanza alle abbronzature. Guardando attorno a sé potrebbe osservare una casa normale, mura bianche, mobili chiari, discreti, una televisione, uno stereo, un corridoio che porta a due stanze da letto, ognuna ha un bagno, la zona è tranquilla; hanno un piccolo balcone, ci sta un tavolo con tre sedie. C’è anche posto per un grill. Una casa normale, in una strada normale. Ad Abolicao, dove sua moglie e Carlos possono vivere bene, una vita serena, con lui che ora fa l’istruttore in una palestra; che paradosso, lui che ha sempre rifuggito sudori e fatiche, l’acido lattico degli allenamenti.
Eppure, se fosse capace di pensieri così profondi, direbbe che non gli va giù questa sua silenziosa mediocrità. Il silenzio: tanto diverso da quel brivido, le urla durante gli allenamenti (ai quali partecipava poco o niente), il ruggito del pubblico allo stadio durante le partite (ne aveva giocate pochissime), il rumore e gli odori tipici dello spogliatoio (che aveva vissuto soprattutto in borghese, infortunato). Faceva parte della squadra. Poteva definirsi calciatore. Non era abbastanza? E ora, cosa gli rimaneva di tutto questo?
Pensò: mi rimane una cosa. Quella sì. La mia storia. Devo chiamare Rodrigo l’Editorial. In fondo ci dobbiamo dei favori. E quello fu il pensiero che produsse il famoso Kaiser Tour Europeo 2014. 

 

PROLOGO 

 

Facendo il lavoro di cronista sportivo ho scoperto una grande verità: i calciatori si annoiano. I calciatori si annoiano, ma pure io non è che mi diverta tanto. Volevo diventare un Writer o come minimo uno Sportswriter, e ora sono un Nothingwriter, mi rendo conto.
Un po’ di anni fa avevano iniziato a chiamarmi Dostoevskij, perché incautamente lo avevo citato in un discorso, prendendo il caffè al bar, dopo un pranzo accaldato e frenetico. Non ricordo come o perché, ma si parlò di pompini e di Dostoevskij.
D’altra parte nel nostro ambiente la contrazione del cognome è metodo e segnale di familiarità, il collega Robertini era “Robbo”, il collega Fraschetti era “Frasca” e pur di storpiare qualcosa – il che corrispondeva a una serena pacca sulle spalle – il collega Mei era diventato “Meo”.
Nel mio caso, la mia mancanza di attenzione e l’acidità trasformatasi in visione del mondo e delle cose mi aveva fatto saltare il passo del cognome e trasformato direttamente in Dosto. Dosto. «Ehi, Dosto, che ha fatto il Lumezzane?»
Avevo altre speranze, e sia chiaro che non mi si può ancora definire vecchio, e forse neanche maturo, ma diciamo che mi sento in qualche modo come quei calciatori per i quali la nostra espressione di riferimento (ci tornerò, su questo concetto) è “Ha un grande futuro dietro alle spalle”. Mi vengono in mente Massimo Orlando (si drogava?) o Pasquale Foggia (era frocio, forse?).
Eppure, nelle mie provinciali cerchie ho i miei estimatori. Il presidente della società di Lega Pro, un siciliano, che quando mi vede mi chiede: «E allora, u facimmu l’articulu?»; e io: «Lo facciamo, lo facciamo!», e di solito finiamo a cena insieme, mi ha preso in simpatia, mi racconta tante cose che io poi sono costretto a riportare a gocce, a rate, un pochino modificate, immerse in diversi articoli, quasi nascoste come cercare una ghianda sotto un manto di foglie verdi o gialle, camminando durante l’autunno in certi viali milanesi (ma dovrei come prima cosa smettere di fare poesia, mi rendo conto).
Oppure girando per le mie zone, ci sono quegli spettatori abituali, quelli che trovi sempre allo stesso posto, in tribuna o in gradinata, che ci credono, ci credono ancora: nella prossima promozione, nella nuova dirigenza, e ancora nel progetto importante e pluriennale, nel presidente che rappresenta una cordata di imprenditori seri e l’obiettivo di valorizzare il settore giovanile e radicarsi nel territorio. Queste sono le mie frasi, quelle che devo usare, ormai assuefatto e – più che Dosto – potevo in effetti aspirare a essere chiamato il Gianni Brera del Pavese, o il Mura del Parco Sud, ma mi accontenterei di essere il Ruggero Palombo di Binasco e dintorni, a dire il vero.
Non copro solo lo sport, ormai mi becco anche tutta una serie di conferenze, consigli comunali, inaugurazioni di mostre, sagre. I con- sigli comunali sono la cosa che preferisco, perché il linguaggio paludato lascia ben presto spazio all’insulto e qualche volta alla minaccia fisica. A un certo punto le persone urlano, le voci si confondono e non ho più bisogno di prendere appunti. Conferenze del territorio, nel territorio, sul territorio. Piani regolatori, acque potabili e impianti di depurazione e spurgo.

Non copro solo lo sport insomma, ma è la cosa che continua ad appassionarmi, e quando parlo di passione lo faccio sinceramente, vi assicuro. È la stessa cosa che ancora mi fa venire un brivido particolare quando passo da una città e mi trovo per caso nel quartiere dello stadio: lo vedo da fuori nei giorni senza partita e mi sembra sempre un gigante dormiente, mi paiono giganti anche quegli stadi di pro- vincia, quelli magari aperti da un lato o dove in una delle due curve sta un prato, lì dove nei campionati minori staziona un’ambulanza, in posizione d’attacco o d’attesa come un cane da guardia.
A volte sbagliavo strada apposta, quando ero in giro con qualche mia fidanzata. Facevo in modo di intrufolarmi in zona stadio, mi capitò a Ingolstadt, a Trieste, a Olbia (ce ne erano due, uno solo per l’atletica), in tanti altri posti. Una che mi conosceva bene aveva capito il giochino e – che amore – un paio di volte aveva fatto in modo di perdersi anche mentre guidava lei.
Non avevo neppure iniziato male ma come per molti altri il picco coincise con la caduta, e fu l’articolo su Riccardo Ferri che ero riuscito a vendere a un quotidiano nazionale.
Storia semplice: Riccardo Ferri aveva la faccia e la reputazione da cattivo, avevo sentito una voce e mi crearono un contatto con lui, con il giovane talento, il talento più cristallino delle giovanili dell’Inter, l’Inter giocava questa amichevole di allenamento contro gli Allievi, e il talento cristallino fa un dribbling di troppo e mette Ferri culo a terra, e lui glielo dice: «La prossima volta ti spacco una gamba», ma questo è uno di quei talenti bradi, non ci bada, vuole giocare a calcio e fare la sua cosa e gli fa un doppio passo con il tunnel, Ferri si sbilancia (e fin qui siamo nel mondo della verità) e poi continua il movimento (e qui inizia il mondo dell’inganno, dell’inganno professionistico, dell’inevitabile sporcizia del mondo imbastardito e incomprensibile) e scivola, scivola all’indietro e di lato con fianco e coscia e si appoggia con tutto il suo peso al ginocchio del talento brado, in quel momento particolarmente vulnerabile perché intento a curvare per entrare in area.
La carriera del brado è finita, infortunio gravissimo, lo conoscete no? La rottura del legamento crociato anteriore e del collaterale esterno, con interessamento della capsula e a nessuno conviene investire nel curare il sedicenne, si fa prima a cercarne un altro e così via e lui ora fa il custode notturno in un parcheggio in Piazza Diaz. E io mi fido di lui e di chi mi ha garantito sulla storia. Ai tempi Internet era agli inizi, in redazione non lo avevamo, a casa avevo un Tiscali lentissimo e non potevo controllare nomi, anni, fino a oggi non so quale sia stato l’anello debole, so solo che un giorno prima della pubblicazione la redazione riceve una diffida dall’Inter, e il brado non può aver incontrato Ferri in quella amichevole perché i tempi non coincidono, Ferri era già a Genova con la maglia multicolore quando il ragazzo è passato per l’Inter e scrivono anche che era sì talentuoso ma non faceva vita d’atleta e dopo sei mesi l’hanno rispedito indietro da dove veniva. Non so ancora come fosse la verità, certo l’Inter citava nomi e date, e poi una diffida, avrei dovuto pensarci da solo al rischio che potevo correre, eppure siamo un po’ così, verrebbe da dire puttane ma io preferisco ambivalenti: cerchiamo lo scoop (danno ai potenti) ma siamo dipendenti dalla routine (notizie che ti arrivano dai potenti) e l’articolo non uscì, a livello nazionale non ho avuto altre opportunità, ma d’altra parte io non sono mai stato da storie, dal colpo ad ampio respiro, da indagine, da boooooom. Io vivo nell’attimo, nell’attimo della partita, nella descrizione, nel calciatore-promessa di cui racconto con entusiasmo il primo gol in carriera e poi quello ne fa cinque consecutivi e sembra quasi una mia creatura, su quei campi di provincia, dove i calciatori sbuffano e si sbucciano e scimmiottano le esultanze dei loro colleghi di serie A o B, e dove – fuori dal campo – si annoiano. 

 

1 

 

Sono al PC che batto la cronaca di Giana-Pro Patria – il collega brianzolo deve coprire Monza dove c’è una protesta dei tifosi, io vengo spostato in zona, lo faccio volentieri – e mi arriva una di quelle e-mail che ti bloccano il sistema perché hanno gli allegati pesanti; dico tra me e me: “Chi è ’sto rompicazzo?” e non dovrei perché vedo poi che è uno di quelli che mi danno il pane, il caporedattore di un quotidiano diffuso a Milano e provincia (provincia, il mio secondo nome).
Leggo: “Marco, guarda un po’ questa storia… è uscita qui e su altri siti, mi pare incredibile, tu che sai le lingue, puoi vedere se ne parlano in altri paesi? Mi pare strano vederla solo su Internet e che se l’è persa La Gazza, magari è una stronzata. Fammi il favore confermami se ne scrive qualcun altro, in Italia, all’estero, poi magari ci scrivi su e la facciamo uscire sul giornale. Grazie”.
Apro gli allegati, guardo i siti, sono quasi tutti blog, alcuni in inglese, poi in tedesco, in portoghese (non conosco il portoghese, ma intuisco i contorni della storia), si va dall’amatoriale al molto curato, leggo con attenzione e pian piano viene su un ricordo, mi torna in mente una cosa che mi era successa circa dieci anni prima a Grenoble, quando ancora pensavo di avere ottime idee e di poterle fare sgorgare dai miei polpastrelli. O potrei dire: “Quando ancora c’era speranza”. Ma sarebbe inutile melodramma. Non sono un uomo-giornalista-Nothingwriter infelice. Mi son detto: “Non piangerti addosso”. Mi son detto: “Vivi la tua vita”.
Leggo e il ricordo si fa più concreto. Se è la storia di dieci anni prima, per una volta (forse) ho roba grossa per le mani. O comunque qualcosa di cui scrivere: ed è questa la mia vita, quella a cui voglio rimanere fedele. 

 

2 

 

Ah! Io, caro giornalista, sono Kaiser. Potevo essere come il mio amico Mauricio. Sai già quello che sto per dire? Ah, ah, hai azzeccato! Sto per dire Favela, sì favela, sempre quella storia lì no? Si sta in 5 o in 10 in una stanza, poverissimi, però il papà e la mamma danno l’esempio che con il lavoro onesto, solo con quello, un uomo è davvero uomo. Ci si deve guadagnare la vita, senza andare sulla cattiva strada. Ma lo hai visto – giornalista – come si è ridotto Adriano?
Mauricio sa dribblare, tirare e far gol. Mauricio era povero davvero, io invece un po’ meno. Ah! La storia della favela. Ma io non abitavo lì, caro giornalista.
Lo ammetto: sono nato abbastanza povero. Ma i soldi chiamano altri soldi, e hanno questa cosa che se ne hai, un pochino restano appiccicati alle persone accanto a te, e se conosci persone che ne hanno succede la stessa cosa, ti si appiccicano addosso. E poi lo sai, la mia fortuna sono stati quelli come te, giornalista, che avevano bisogno dei titoli sui giornali. Gente come te ha pochi soldi e tanta fretta, vero? Senza offesa, sai. Ah, ah.
Come il mio amico Rodrigo. Quante ne ha scritte. Scriveva di me… insegnami una parola nuova, giornalista. Iperboli. Esatto, quello! Ma non serviva che fossero miei amici. Scrivevano, scrivevano lo stesso. Quante volte è arrivato Carlos Kaiser Henrique e hanno tirato fuori queste cose: il mio fisico, che somiglio a Beckenbauer, che gioco e mi muovo a testa alta – poi te ne racconto una, di quando ero giovane –, l’amico di Mauricio, il gemello più tecnico di Ricardo Rocha, roba da ridere… Ricardo era uno che sapeva palleggiare con la pallina da tennis, magari non era uno che lo faceva per mettersi in mostra, era un bravo ragazzo Rocha e non tirava di coca, e poi le poche volte che giocavo scrivevate: ancora lontano da una forma accettabile Carlos “Kaiser” Henrique, che nei venti minuti in campo ha combinato ben poco.
Pochi soldi e tanta fretta, dico bene? E io allora sono diventato Kaiser.
Se avessi saputo giocare a pallone, sarei stato magari Mauricio. Ma preferisco così: Kaiser. Senti come suona? 


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