Intervista con Piero Isgrò
Libreraria
1 aprile 2016
Conversazione con Piero Isgrò,
Giornalista e scrittore, autore, fra l’altro, dei romanzi La bambina francese (Arkadia, 2013) e La sposa del nord (Arkadia, 2014).
Dottor Isgrò, inizio subito con una domanda su La sposa del nord. La protagonista è Giselda Fojanesi, protofemminista, poetessa, più nota forse per le sue sventurate vicende coniugali (con il poeta catanese Mario Rapisardi) e amorose (con lo scrittore Giovanni Verga) che per i suoi meriti di intellettuale. Ma mi incuriosiscono anche i due personaggi maschili, colti nella loro umanità, per non dire nella loro meschinità. Da dove è partita l’ispirazione, dalla figura di Giselda o dai due artisti siciliani?
Il libro nasce da una esigenza di giustizia: rendere onore e dignità a una donna calpestata nei suoi più elementari diritti, trattata come una schiava, tradita e picchiata da un uomo che a Catania rappresentava il progresso, la libertà, la giustizia sociale. È stata questa infamia che mi ha spinto a prendere la vita di Giselda Fojanesi, metterla su un piedistallo e farne un simbolo. Raccontare le vicende matrimoniali di questa ragazza fiorentina, colta e perbene, che sognava di fare la scrittrice, è stato come scendere nell’inferno del pregiudizio, della violenza d’una Sicilia rimasta al medioevo, al clericalismo più becero, al pregiudizio e alla vanagloria. Le fanno da contrappunto i due uomini della sua vita: Mario Rapisardi, il poeta più sopravvalutato dell’universo letterario del tempo, marito piccolo piccolo, infame e grottesco; e Giovanni Verga, l’amante, il gentiluomo, il grande scrittore che in realtà amava solo se stesso, il suo mondo borghese, le sue proprietà e che quando si trattò di aiutare la donna che a lui si era data completamente, dopo l’odissea di angherie e soprusi, le girò sostanzialmente le spalle.
Immagino un grande studio propedeutico alla stesura del romanzo. È difficile mantenere l’equilibrio tra la fedeltà ai dati storici e la rielaborazione creativa delle passioni vissute dai personaggi?
Conoscevo ovviamente Mario Rapisardi, mio padre, pur non apprezzandolo, aveva l’opera completa delle sue opere che sono state letteralmente distrutte dalla critica letteraria italiana, a parte qualche studioso dilettante catanese che non merita considerazione. Non conoscevo Gilseda o, meglio, non conoscevo il suo dramma di sposa. Solo leggendo la vita di Verga scritta da Giulio Cattaneo questa figura di donna umiliata ma mai sconfitta è entrata nel mio cuore al punto che ne trassi un lungo racconto pubblicato a puntate sulla “Sicilia” una quindicina d’anni fa. Di solito, quando lo si consegna alla pagina scritta il personaggio viene abbandonato dall’autore, ma per me non è stato così. L’ho approfondito, ho letto tutti i suoi racconti, per la verità poca cosa, ho letto il ritratto che ne fece Maria Borgese in Anime scompagnate, che Giselda conobbe di persona, e mi sono deciso al passo del romanzo. Volevo che un più vasto pubblico conoscesse la vita di questa grande persona che visse novantacinque anni, a cavallo di due secoli, e che tutto conobbe: l’unità d’Italia, la monarchia, il nazifascismo, due guerre mondiali.
In Sicilia, a Catania in particolare, lei ambienta i suoi romanzi. E l’incontro/scontro tra mentalità settentrionale e quella meridionale è un tema che ritorna. Possiamo dire, secondo lei, che nel terzo millennio intendersi, fra persone del Sud e persone del Nord, è meno complicato?
Delle due Italie di allora, proprio due Paesi stranieri e ostili, non è rimasto molto per fortuna, anche se talvolta ne affiorano i cascami. I giovani di oggi, grazie alla televisione e al cinema, parlano lo stesso linguaggio, vestono alla stessa maniera, si fanno traforare le labbra e le orecchie, sognano le facili ribalte del successo, spesso si abbandonano alle scorciatoie della droga, insomma più che italiani sono europei. Anche gli adulti sono omologati, parlano una lingua comune, pensano gli stessi pensieri, raccontano storie. Il mondo è andato avanti nonostante le mafie, le ruberie, un ventennio barbaro da poco archiviato e un altro se ne approssima nella speranza che non ne costituisca l’evoluzione della specie.
La sua ultima opera, a breve pubblicata dall’editore Arkadia, è il romanzo Finisce la notte. Senza troppe anticipazioni, vuole dire ai lettori di Libreriamo se si tratta ancora una volta di un libro ispirato a fatti e persone reali?
È il mio romanzo più sofferto e difficile. Per non tradire l’attesa dei lettori, che di norma sono legati alla storia, al come va a finire, ne racconto il nucleo morale. Intorno alla metà degli anni Ottanta sparisce un bambino a Catania. Il dolore per la scomparsa del figlio, che si aggiunge al dolore di un altro bambino nato morto, sconvolge i genitori. Lei si chiude in convento, lui va alla deriva. Proseguendo nel racconto, si scopre che il bambino scomparso ha perduto la memoria ed è stato raccolto da un’altra famiglia anch’essa in lutto per la perdita del proprio figlio in un incidente. I genitori abusivi prendono così il posto dei genitori legittimi e allevano il bambino senza memoria con amore e intelligenza, alla fine ne fanno un pianista di fama internazionale. Senza andare oltre, per non scoprire gli sviluppi del racconto, assolutamente sorprendenti, si può tuttavia dire che il perno del romanzo stia proprio nel confronto tra genitori biologici e genitori putativi. E qui parte il gioco dei “se”. Che cosa sarebbe accaduto al bambino se non avesse smarrito la memoria? Sarebbe diventato un grande artista come in effetti è diventato grazie all’impegno e all’intelligenza dei falsi genitori? Oppure, sarebbe stato un onesto e prevedibile giovane di buona famiglia con l’avvenire assicurato? Cos’è giusto? In qualche misura il romanzo adombra il grande dibattito sui diritti civili che sta scuotendo le coscienze degli italiani. Insomma, non è detto che i figli adottati o ottenuti in altro modo, legale o illegale, non abbiano le stesse opportunità dei figli legittimi.
(Rosalia Messina)