“Intervista a Marinette Pendola” su Formicaleone
NELLA NARRAZIONE UFFICIALE NON ENTRA LA MEMORIA MIGRANTE: INTERVISTA A MARINETTE PENDOLA
La pastina. La pastina sparpagliata sul pavimento. Per qualche tempo ci fu solo quello. Poi, come uno spesso strato di cenere, un grigiore uniforme coprì ogni cosa. Per anni, per una vita intera. Fino a oggi. E ora, mentre infilo la chiave nella toppa e sto per aprire la porta di casa, appare un’immagine all’improvviso. Mi abbaglia quasi. Mi fa tentennare mentre varco la soglia e mi avvio verso la camera. Ora ricordo. Ricordo perfettamente quello che avvenne quella sera. Attimo dopo attimo. Ricordo che faceva caldo, molto caldo. Avevamo tenuto la porta aperta sulla campagna nella speranza che un po’ di brezza entrasse in cucina. La mamma dava da mangiare a Carmelina che non ne voleva sapere di stare seduta a tavola. La teneva in braccio con il sinistro, mentre con la mano reggeva il piatto pieno di minestrina e con la destra la imboccava. Camminava a passetti sereni tagliando in diagonale la stanza, avanti e indietro, con ritmo lento e sicuro, incitando la piccola di tanto in tanto. Il papà non c’era. Mieteva il grano in campi lontani da casa insieme al nonno e agli zii, lo ricordo bene, e trascorreva le notti accampato con loro. Sarebbe tornato a fine mietitura, forse qualche giorno dopo, non so esattamente.
È questo l’incipit (assai suggestivo e carico di aspettative) di Lunga è la notte, il romanzo che Marinette Pendola ha pubblicato nel 2020 per Arkadia Editore e al quale , come altri suoi precedenti scritti, fa da sfondo l’amata Tunisia con le sue atmosfere travolgenti e i suoi paesaggi polverosi, irradiati di luce magnetica e di colori intensi.
È una calda serata estiva del 1936 e nel grappolo di case del villaggio di Bir Halima, dove vive la comunità siciliana emigrata, un evento inaspettato sconvolge la quotidianità dei suoi abitanti: il misterioso omicidio di una donna mette in moto le indagini del brigadiere Latrousse e del suo stretto collaboratore Mathieu (la Tunisia é a quei tempi un protettorato francese) che cercano indizi e colpevoli all’interno di una comunità che conoscono solo attraverso gli stereotipi . Sono passati molti anni da quella notte misteriosa, e il figlio ormai adulto della donna uccisa ne ricorda gli avvenimenti. Quella che potrebbe sembrare una storia a sfondo poliziesco è in realtà un viaggio travolgente all’interno di un mélange di culture (quella locale, quella italiana emigrante, quella francese) che vivono l’una affianco all’altra ma che non si conoscono affatto né riescono ad andare oltre le reciproche stigmatizzazioni. Non è la prima volta che Marinette Pendola, mescolando vicende reali e ispirazione creativa, si mette sulle tracce degli italiani di Tunisia: già con i romanzi La riva lontana (Sellerio) e La traversata del deserto (Arkadia), la scrittrice ha esplorato da diversi punti di vista l’esperienza migratoria. Nata a Tunisi da genitori di origine siciliana, Pendola è una profonda conoscitrice della storia poco nota della comunità italiana nello stato nordafricano. Stato in cui la stessa autrice è nata e vissuta ma dal quale si è allontanata nel 1962, appena adolescente, protagonista di un ritorno in patria che non l’ha lasciata indifferente. Voce raffinata e limpida, nelle sue opere narrative e nei suoi studi saggistici Marinette Pendola esplora autenticamente il topos letterario della migrazione, e ne scandaglia tutte le derivazioni più attigue – la nostalgia, il distacco, il ritorno, la partenza, lo stereotipo dello straniero- accogliendo nel suo sguardo ampio e sensibile contaminazioni e contraddizioni di un’umanità che ciclicamente fatica ad accettare l’altro, inteso come il non assimilabile, il non uguale a sé.
La storia che narri in “Lunga è la notte” è realmente accaduta ed è struggente. Negli anni ’30 in un piccolo villaggio poco distante da Tunisi, l’omicidio di una giovane madre sconvolge tutti. Dopo molti anni suo figlio, ormai anziano, indaga su quella misteriosa notte cercando di recuperarne i pezzi, anche grazie all’aiuto di due donne forse coinvolte nella vicenda. Il tema della memoria sembra sempre ricorrente nei suoi scritti: perché? La memoria è ciò che sopravvive quando tutto è perduto. Al migrante che ha dovuto per necessità (o per obbligo) abbandonare la terra in cui è vissuto e scindere spesso legami familiari forti, non resta altro che il ricordo. La memoria nutre le radici di ognuno. L’essere umano è come l’albero che ha bisogno di radici possenti per espandere meglio la chioma. E le radici dell’uomo in continuo movimento sono tutte nella sua memoria.
D’altra parte, la storia che racconto da più di vent’anni ormai, quella degli italiani di Tunisia, può vivere solo di memoria, essendosi quella collettività dissolta quasi del tutto. Impellente è per me la necessità di portarla alla luce, non tanto e non solo per me e per chi ha vissuto la mia stessa esperienza, ma per far conoscere quella storia d’Italia che, da metà Ottocento, si è svolta fuori dai confini nazionali.
In questo romanzo appare vivido il senso di comunità, di appartenenza. I siciliani sono percepiti come persone dalle precise caratteristiche sociali e comportamentali. Il tema dello stereotipo e della percezione categoriale dell’altro sembrano essere altrettanto centrali nei suoi testi. Perché gli stereotipi continuano ad avere ancora oggi così grande peso nelle relazioni interpersonali?
Gli esseri umani sentono la necessità di dare un’etichetta alle diverse sfaccettature della realtà. Non paiono in grado di guardare l’altro senza ricondurlo – e, mi viene da dire, ridurlo – entro i confini di una definizione precisa, un’etichetta che, in qualche modo, lo marchia e lo include in una determinata categoria. Ciò falsifica la realtà ma dà un’enorme sicurezza. Per definire il mio lavoro, ad esempio, si è coniata l’espressione di “post-coloniale indiretto”, poiché scrivo di un’esperienza coloniale, ma la Tunisia non era una colonia italiana, come l’Eritrea o la Libia.
Nei miei romanzi, e in special modo nell’ultimo, racconto di eventi che si svolgono in periodo coloniale, in un momento storico e in una situazione in cui ogni gruppo sociale è racchiuso in un ruolo preciso. I siciliani sono percepiti come primitivi, appena al di sopra di coloro che all’epoca si chiamavano “indigeni”. Appaiono litigiosi e sempre pronti a estrarre un coltello, portatori di pulci fameliche e di una religiosità pagana. Nei quotidiani e nella narrativa in generale, ma anche nei verbali dei tribunali, gli stereotipi concernenti i siciliani emergono in modo evidente. Ecco una descrizione tratta da un romanzo dello scrittore francese Georges Duhamel (1884-1966) che racconta di un suo viaggio in Tunisia: “È la serva di Arnaud. Immaginate un’italiana fuori uso, spiegazzata come una vescica vuota. Cinque capelli in due trecce e molti più peli nel naso. Un carattere demoniaco che trae soddisfazione a danno degli oggetti più fragili”. Al confronto, le mie descrizioni appaiono come pennellate di acquerello.
Com’era la vita della comunità italiana in Tunisia? Chi erano i nostri connazionali che si sono trasferiti nel Nord-Africa e perché negli anni 50-60 sono tornati in Italia?
Gli italiani provenivano soprattutto da due regioni: Sicilia e Toscana (Livorno in particolare). Vi erano inoltre pochi membri originari da altre regioni, come la Sardegna. I livornesi erano una minoranza colta e benestante, costituita prevalentemente da esuli mazziniani. La maggioranza invece era formata dalle cosiddette “nude braccia”: operai, sterratori, contadini, muratori, pescatori, minatori… Trovavano facilmente lavoro nei grandi cantieri che la Francia colonizzatrice andava allestendo in tutto il paese. Insieme a loro giunsero tutti quegli artigiani indispensabili nella vita quotidiana: barbieri, fornai, pastai… Fra la fine del XIX e gli anni venti del XX secolo, approdarono, spesso in modo clandestino, molti italiani il cui numero non si riesce ancora a definire, nonostante le numerose ricerche. Approssimativamente si calcola che fossero fra 120.000 e 190.000, molto più numerosi degli stessi francesi colonizzatori. Gli italiani si trovarono schiacciati verso il basso a contatto stretto con la popolazione locale, mentre il contatto con il mondo francese fu marginale fino alla fine della seconda guerra mondiale quando vennero chiuse tutte le istituzioni italiane, scuole comprese. I bambini italiani vennero tutti scolarizzati in istituti francesi e la popolazione italiana si francesizzò sempre più. La vita quotidiana, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, fu di tranquilla convivenza fra le varie appartenenze, di accettazione dell’altro e spesso di condivisione. Prima della guerra, la realtà coloniale era dura con atteggiamenti razzisti a volte molto marcati che si sono via via attenuati fino quasi a sparire nel secondo dopoguerra e a giungere a un periodo di serena convivenza (fra gli esempi più eloquenti, si tenga presente la processione della Madonna a La Goulette il 15 Agosto).
La convivenza fra le diverse culture permise agli italiani di elaborare una cultura propria che accolse espressioni degli altri ambiti culturali. Amiamo definirci italiani “di” Tunisia perché non siamo stati semplicemente italiani “in” Tunisia: abbiamo accolto e fatto nostri elementi di altre culture, ma abbiamo anche lasciato parte del nostro patrimonio in uno scambio proficuo che oggi rende unici i tunisini e gli italo-tunisini.
Dal 1956, anno dell’indipendenza del paese, comincia la lenta disgregazione della collettività italiana. La causa principale è da additare nell’inevitabile “tunisificazione” di tutti gli ambiti professionali: sottrazione della licenza per i tassisti, licenza provvisoria per i commercianti, nazionalizzazione dei terreni agricoli… I provvedimenti emanati dal giovane governo tunisino crearono un clima d’incertezza che incoraggiò l’esodo. La collettività italiana si spezzò: la maggioranza si stabilì in Francia poiché sentiva quel paese più vicino culturalmente, mentre l’Italia appariva, a tutti gli effetti, un paese straniero.
Com’è secondo lei, il rapporto che l’Italia ha con la sua memoria? Molte storie (come quella della comunità italiana in Tunisia, ad esempio) sono sommerse e non riescono a venir fuori come dovrebbero, in particolar modo quelle che ci vedono protagonisti come emigranti. Perché ci ostiniamo a rimuovere questo passato migratorio?
L’Italia ha un rapporto difficile con la propria memoria. Nella narrazione ufficiale non entra la memoria migrante. Eppure è il paese che ha dato il maggior contributo all’emigrazione in epoca contemporanea: circa 26 milioni d’italiani hanno lasciato il paese dall’Unità d’Italia agli anni Cinquanta, e ora il fenomeno sembra in ripresa. È un argomento che ha sempre generato un certo pudore, forse sin dai tempi del fascismo quando al termine migrante si preferì quello di italiano all’estero. Da una ventina d’anni, un numero crescente di studiosi approfondisce questi temi. Tuttavia, soltanto quando la scuola si approprierà di quest’argomento, potrà diventare memoria diffusa e parte integrante della narrazione nazionale.
Si occupa da anni di storia e tradizioni degli italiani in Tunisia e collabora da tempo a un progetto ideato dall’Ambasciata Italiana a Tunisi . Quante e quali storie e testimonianze ha raccolto in questi anni? C’è ancora tanto da scoprire?
C’è ancora tantissimo da scoprire. Gli archivi di Tunisia, Francia e Italia sono pieni di documenti e testimonianze. All’inizio del nostro percorso di ricerca, negli anni Novanta, eravamo in pochi di fronte a un ammasso tale di documenti da far venire il capogiro e da scoraggiare. Ma la nostra tenacia ci ha premiato. Oltre alle nostre pubblicazioni, frutto di quelle ricerche, abbiamo stimolato la curiosità di giovani studiosi che hanno raccolto il testimone. Sul piano storico, ci sono numerose ricerche in corso. Sul piano letterario, ho ancora tanto da raccontare…
Inoltre, a Tunisi, nella sede della Società Dante Alighieri, è stato creato in questi ultimi anni, a cura della direttrice Silvia Finzi, un archivio in corso di completamento.
Il suo è un romanzo avvolgente e coinvolgente, ricco di descrizioni lampanti e ben scritte fatte di colori, profumi, odori che riportano all’immaginario “tipico” del contesto nordafricano. Quanto, al di là delle storie che ha narrato e narrerà, il paesaggio africano continua e continuerà a influenzarla?
Il paesaggio nordafricano mi appartiene, è dentro di me. Non so in che misura influenzi la mia scrittura, so che posso raccontare soltanto ciò che conosco.
Valentina Di Cesare
Il link all’intervista su Formicaleone: https://bit.ly/3pDUvbo