“Il visconte che amava i gelsi” su SoloLibri
Il visconte che amava i gelsi di Renata Asquer
Arkadia, 2024 – La riflessione di un anziano sulle aspirazioni dell’età giovanile e sugli obiettivi mancati in una vita. Personaggi, luoghi ed eventi sono reali, non invece la vita dell’antenato, nel Cagliaritano, tra fine ’700 e i primi del 1800.
Sono realmente esistiti i personaggi di questo romanzo storico, come risultano autentiche le vicende raccontate, di oltre duecento anni fa, in Sardegna e altrove. Molto dei contenuti si deve però alla fervida creatività e alle provate doti narrative di Renata Asquer, ex insegnante e ora fervida autrice. Il visconte che amava i gelsi è il titolo dell’opera più recente della scrittrice di antica nobiltà sarda. È in distribuzione da maggio 2024 nella collana Eclypse della casa editrice Arkadia (Cagliari, 132 pagine).
Renata, cagliaritana d’origine nata a Varese, laureata in lettere moderne alla Cattolica di Milano, ha insegnato italiano, storia e geografia nelle scuole medie di Varese e provincia per diversi anni. Ha collaborato con articoli letterari a varie testate tra cui “L’Unione Sarda”. Oltre ad avere firmato raccolte di racconti e poesie, è autrice di narrativa, a cominciare dalle biografie romanzate di Fausta Cialente nel 1998 e Dino Buzzati nel 2002. Sono evidenti le radici familiari della scrittrice in relazione al nobile Francesco Asquer di Flumini. Lei stessa spiega d’essere passata, sulla scia della passione per la propria famiglia nel corso degli anni, dai fatti degli antenati più interessanti alla storia dell’isola in generale a partire dal Cinquecento. Solo da pochi anni ha scelto di concentrarsi sugli anni dal 1792 al 1812, che evocano uno dei capitoli più gloriosi e drammatici: la sarda rivoluzione.
È il contesto in cui ha scoperto il visconte Francesco, antenato molto noto in Sardegna per avere difeso eroicamente Cagliari dai francesi, giunti con una nave da guerra in porto alla fine del 1792. Meritò l’appellativo di “Buttafuoco” per l’ostinazione nell’uso del cannone, oltre alle eccelse qualità militari. L’autrice conferma che i personaggi, i luoghi e i grandi eventi del romanzo sono quasi tutti reali. Perfino il podere di famiglia – nel quale il protagonista scrive il lungo memoriale – è ancora allo stesso posto, nella campagna a pochi chilometri da Cagliari, per quanto irriconoscibile dopo la trasformazione in resort e sede di congressi e appuntamenti culturali e artistici. Non è autentica invece la vita dell’antenato, in particolare gli episodi sentimentali e personali. Riconosce d’essersi concessa qualche libertà, allo scopo di rendere ancora più avventurosa e interessante la sua lunga vita. Il romanzo è in forma di testimonianza resa dal visconte attraverso un manoscritto destinato ai posteri, che il nobile sardo comincia a scrivere nel 1829, nell’esilio volontario in campagna. Intende affidare un diario, più spirituale che biografico, al figliolo primogenito prossimo alla maggiore età. L’omonimo Francesco dovrà leggerlo per primo, solo dopo la morte del genitore e quando lo riterrà opportuno passarlo ai fratelli, numerosi e tutti in età diverse.
Nelle pagine del nobile cagliaritano, si ritrova la “mano” moderna della discendente:
Nonostante lo scritto non riveli chissà quali segreti, in esso c’è vostro padre assolutamente allo scoperto, da giovane, da uomo maturo e da anziano… Ero nato per una vita d’avventura sono stato a lungo un soldato.
Sui vent’anni sognava di distinguersi come combattente, presto però non si era più accontentato degli incarichi banali, dei turni di ronda noiosi sulle mura del Bastione, dei servizi di guardia nelle torri costiere di avvistamento e delle cavalcate all’inseguimento dei banditi dell’isola in mezzo alle montagne. In verità aspirava a fare il patriota, come più tardi sarebbe diventato l’amico Giommaria Angioy, che non era un uomo d’armi ma un magistrato e fu il grande eroe dell’indipendenza, arrivando a sacrificare ogni cosa, compresa la vita, per la libertà e la giustizia sociale nella sua terra. Al contrario, il visconte si è ritirato, dopo aver visto irrealizzati i suoi obiettivi. Lo note autobiografiche che Renata fa schizzare all’antenato consentono di apprendere che il governo piemontese lo considerava un pericoloso giacobino, termine nato dalla Revolution française. In effetti la si riconosce nella corrente rivoluzionaria che spingeva a lottare contro l’assolutismo e le annose ingiustizie sociali dei feudatari a danno delle popolazioni delle campagne.
Se tornassi a nascere mi batterei per essi con molto più coraggio e tenacia.
Rapito dai pirati barbareschi e tenuto schiavo a Tunisi per cinque anni, proprio durante i grandi fermenti patriottici nell’isola, al rientro si ritrova solo in un deserto, persi quasi tutti gli amici che condividevano i valori.
Questo rimuginare senza direzione succede di rado. Per fortuna mi rialzo presto, consapevole che alla mia età, più o meno vegliarda, devo mantenere uno sguardo distaccato su rimpianti e su tutto ciò che non è andato come si prevedeva.
Si tratta solo della premessa alle pagine seguenti del diario, che raccontano la sua vita o, meglio, le sue tre vite, contrassegnate dalla grande storia e da quella locale. E col tempo, in vecchiaia, da una grande saggezza retrospettiva, illuminante tanto rispetto alle vicende collettive che alle motivazioni soggettive di quelle individuali. Si riconosce un merito, quello d’esser riuscito a girare la barra del timone della sua esistenza, da un passato d’illusione di un destino di eroismo alla pacifica realtà dell’allevatore di bachi da seta in una campagna sperduta dei suoi avi.
Da giovani giochiamo alla guerra, al grande amore, alla lotta per gli ideali. Con gli anni, invecchiando, ci si accontenta di passioni semplici e di credere in quel che si fa per sé e per gli altri.
E questa è una grande verità.
Felice Laudadio
Il link alla recensione su SoloLibri: https://tinyurl.com/mr23jsk9