“Il tornello dei dileggi” su Le conseguenze del teatro
Scrittura agile, svelta, giovane. Dialoghi credibili, adagiati sulla realtà di questi anni che vanno di corsa, che fanno a pugni con la chiarezza, che incespicano nelle ansie, nelle domande senza risposte, nei dolori senza nome. Non è una storia d’amore, non è un romanzo di formazione, non è uno di quei noir dalle tinte svedesi che vanno tanto di moda. “Il tornello dei dileggi” di Salvatore Massimo Fazio, edito da Arkadia nel 2021, è un libro che si addentra nell’universo distopico dell’animo umano senza il benché minimo spirito d’avventura, piuttosto con quella indolenza, quella rassegnazione, quel pessimismo che si crogiolano nel nulla e stancamente si trascinano nell’illusione di poterlo afferrare. Adriana e Paolo sono due individui complessi, metafora entrambi del genere umano al quale spetta l’arduo compito di fronteggiare l’esistenza nell’attimo esatto in cui ci si butta coraggiosamente nella mischia. Una mischia a due o a tre o a quattro, poco importa.
È il mondo, fuori, a reclamare quella presenza più o meno baldanzosa alla quale ci si consegna solo dopo aver indossato la maschera migliore per l’occasione. Ed è lo stesso mondo, poi, ad appiccicarci addosso le etichette più fantasiose, quelle a causa delle quali finiamo per sentirci estranei a noi stessi, convulsamente dondolando tra il ruolo di vittima e quello di carnefice. Rispondendo all’urgenza di dislocarsi nella realtà, alla bell’e meglio. Se si rimane fermi, immobili, nel non cambiamento, si è fottuti. Durante il medesimo défilé dei goffi, incerti Adriana e Paolo, sfilano un numero consistente di altri individui dei quali l’autore traccia uno schizzo o appena i contorni. Ché si sacrifica il singolo ritratto sull’altare della necessità di ricostruire l’insieme di una società strampalata dentro ai perimetri della quale ci si appiattisce fino a scomparire o ci si posiziona talmente di sbieco da risultare sgraditi. Tra un passato da compagno e un presente da camerata, passando per Evola, per i personaggi più scomodi in cui ci si potesse mai imbattere. Sullo sfondo una Catania barocca, chiassosa, festaiola, nottambula dove Adriana può rincorrere agevolmente i rumori. Ma c’è pure una Torino a tinte fosche cui tocca addossarsi tutto il dolore, sottile e al contempo sovrumano, di cui sono intrise le pagine; salvo nasconderlo fino alle fine sotto al tappeto, come fosse polvere. C’è Milano, ove invano Paolo prova a inseguire i silenzi. C’è Longi, a costituire una parentesi calda e fredda insieme. C’è finanche un pizzico di Spagna, coi colori dell’audacia, del cambiamento. E a infarcire ulteriormente questo romanzo di “cose” e di caos, che rassegna le dimissioni, linguistiche e narrative, alla quiete letteraria, c’è la musica, c’è il calcio che scandisce gli anni nell’avvicendarsi parallelo di panchine e stagioni, c’è qualche frammento di cinema chiamato in causa dalla vita. C’è insomma molto di ciò che gli uomini, inghiottiti dallo spleen, arraffano qua e là per sopravvivergli. L’explicit è il boom della deflazione nei fumetti. Non banale, sia chiaro. Onomatopeico semmai. Perché tu lo senti, con le orecchie. E col cuore. Perché il dolore, più di ogni altra cosa e di qualunque natura esso sia, possiede la prerogativa di essere tattile, come le opere d’arte a effetto plastico e volumetrico cui alludeva Berenson. Allora lo senti. Allora non puoi scansarlo. Non è un romanzo facile “Il tornello dei dileggi”, non è un romanzo che leggi sul tram, tra una fermata e l’altra e il chiacchiericcio irriguardoso della gente. Perché se ti scappa da ridere vuol dire che ti sei perso per strada la vena tragica del frangente, che ci devi ritornare, che devi scandagliare ancora e ancora i fondali di una scrittura irriverente e ingannevole al pari della realtà. La sintassi si adagia, infatti, su un tracciato irregolare che opportunamente risente delle circostanze: prendi fiato su una sequenza di frasi dal ritmo sincopato e soggette a un uso smodato della paratassi, poi subito dopo ripiombi nel delirio tachicardico di una scrittura che ricalca il parlato. Il parlato degli squinternati. Dove si colloca allora il lettore? Da quale angolo visuale assiste alla messa in scena del dolore? Si direbbe dall’alto, da dove tutto appare microscopico, da dove l’alibi all’incomprensione del tutto è più a portata di mano, da dove ci si può illudere, prossimi al cielo, che quel tutto sia un sogno, uno stupidissimo sogno.
Giusi Arimatea
Il link alla recensione su Le conseguenze del teatro: https://bit.ly/3x7Zt55