Il rianimatore
I
La prima volta uno non prende coraggio. Il passato non se ne va così rapidamente come si potrebbe pensare. Diventa friabile come il muro di chi è scomparso senza memoria.
Mi viene in mente il cimitero della mia città con i suoi viali, alcuni antichi, altri moderni, come i corridoi dei grattacieli di vetro e cemento, ordinati e lunghi, pieni di luce e impenetrabili. È come inoltrarsi in una notte senza Luna o, piuttosto, in una giornata inglese di nebbia, nella quale si diventa cercatori enigmatici.
Mi colpiscono le lapidi con quelle frasi incise per testimoniare un amore e un dolore assoluti.
Tra le tante epigrafi, ce n’è una meravigliosa: “Alle piante, agli animali che ho amato. Ci ritroveremo in un punto”.
Ci penso seduta al Sole di questo autunno che è estate, sulla panchina di fianco al portone della mia casa, in fondo al viale degli ippocastani. Cadono le foglie, cadono le castagne con regolarità, rimbalzano ai miei piedi. Intorno nessuno, una bellezza straziante, una luce abbagliante, un’immensità che mi travolge.
Qui ho scoperto che la bellezza può essere straziante perché troppo al di sopra delle nostre forze per assumerla nel cuore oltre che negli occhi, ma straziante anche perché penso alla fine che arriverà, all’impossibilità di bloccare la luce tra le foglie.
Tra poco mi riconquisteranno il trascorrere di tutto, il dolore al collo, il volo di una mosca, i gatti che strisciano tra l’erba. Ci sarà spreco, abbandono.
Si siede al mio fianco. Passa una nuvola sulla nostra testa. Forma un triangolo sul triangolo del tetto. Guardiamo la nuvola e lui si lascia andare alle sue considerazioni.
Ha letto poco, non ha studiato, ha un’infarinatura di tutto, è volgare, spesso indolente, poi, da altezze sconosciute, tira fuori una delle sue affermazioni: «Ci pensi che la storia di tutta l’umanità è contenuta nelle nuvole?»
Tutta l’umanità finisce nelle altezze, nelle lacrime, nel sudore, nei miasmi, negli oggetti consunti e nuovi, tutto nelle nuvole sotto forma di vapore. Guarda ancora la nuvola, poi scuote la testa con l’atteggiamento di chi ha messo una vita a capire cose che non gli servono più o di chi ha sempre capito qualcosa che gli è servito poco. Uno spreco anche questo.
Le piante oscillano al leggerissimo vento di mezzogiorno. Un ficus, un benjamin, un tronchetto statuario. Si godono l’aria tiepida di un ottobre estivo. Per un principio di casualità le piante sono qui. Gli dico grazie. Sorride.
È successo due settimane fa, ma, forse, era successo anche un mese fa nella parte nord della città. Gli ho chiesto di fare la telefonata. Si è opposto, come fa sempre, poi ha telefonato, tre volte, perché il contatto giusto era una scatola cinese.
Alla fine ha risposto una voce femminile.
«Signora, è inutile girarci intorno. Non siamo interessati né a comprare né ad affittare il locale. Abbiamo visto che lì dentro sono rimaste molte piante. Così moriranno. Capisco che per lei è una follia, ma mia moglie ha la fissazione delle piante e degli animali abbandonati.»
Helena ci ha dato un appuntamento. Sabato mattina alle nove. E siamo andati.
Ho imprecato, come ogni mattina, per la strada sconnessa, per il Sole e il caldo che non finiranno mai, per il deserto che ci conquisterà, senza più la pioggia, la neve, la ricerca dell’armonia delle stanze nel buio delle giornate invernali.
La zona nord della città è memoria del tempo passato.
Questa è una città che si svuota come un guscio e si sposta lungo il transito di percorsi regolari.
Helena è una donna dalla bellezza che arriva da un’altra vita.
«Sono Helena, nata qui e vissuta a lungo a Petare. Mio fratello è morto due anni fa di cancro…»
Lo ricordo con precisione, alto, con i capelli bianchi, lunghi, il volto tirato, il sorriso raro.
Perché lo ricordo? Non lo so. Era stato cameriere in un altro bar e, per creare intimità, racconto a Helena qualcosa del fratello. La mia memoria è fuori di me e gode di un’autonomia sospetta e crudele. Il passato non se ne va così rapidamente come si potrebbe pensare.
Mi ha raccontato di quando sono tornati in Italia, del marito malato e del padre vecchio.
Ed è stato a quel punto che lui è entrato nel discorso, mostrando il peggio e il meglio di sé, la sua grossolanità senza rimedio e la sua precisione nella conoscenza di un mondo che non aveva mai visto. Il Sud America, per qualche ragione, un’ossessione mai sedata, una trafittura nel costato, la partenza abbandonando tutto, la propria lingua, il proprio mondo. Si è lanciato in un discorso preciso sul Venezuela, storia, economia, tradizioni.
Raccontava con una tale determinazione che, tra i due, Helena sembrava la straniera.
Siamo entrati nel bar di fianco. Helena si è rabbuiata all’improvviso. C’èra molta gente che ci pigiava contro il bancone e io pensavo a quanta ansia accumuliamo giorno dopo giorno, al terribile senso di inadeguatezza che alla fine ci schianta con il timore che anche il più banale degli errori ci condannerà alla solitudine tra gli altri o al riso e agli insulti.
E così, in un tributo alla mia ansia, ho chiesto a Helena come è stato partire per una terra sconosciuta, verso abitudini incomprensibili.
E lei racconta.
Il bar andava bene, lo avevano comprato con i risparmi di una vita. Era un luogo meraviglioso, pieno di piante, per questo ha capito immediatamente quello che volevamo dire parlando della salvezza loro. È sincera. Lei triste, io in imbarazzo.
Mi sale un’inquietudine improvvisa, è come se bruciassi le sensazioni in un tempo preciso. Oltre non c’è nulla.
Usciamo. Vicino alla porta d’ingresso un vecchio beve un caffè corretto con un goccio di cognac; ha l’aspetto di un ladro di gocce di liquore, quelle che si conquistano con ostinazione insinuandosi nelle pieghe della distrazione altrui.
Helena mette la chiave nella toppa del locale.
La porta di vetro pesante si apre. Ci accolgono un caldo soffocante, odore di chiuso, odore di cose che un tempo erano state lì dentro, caffè, latte, o forse è solo una suggestione.
Sto zitta per pudore. «Ecco», dice Helena e fa un giro rapido lungo il perimetro del bar.
Scappa fuori, accende una sigaretta, aspira profondamente il fumo. Il gesto della sigaretta tra le mani la rende affascinante. Noi rimaniamo dentro a guardare le piante, alcune morte, altre in coma, altre ancora capaci di fingere, ognuna con un proprio carattere, dignitoso, lontano dalla sguaiataggine degli uomini. Le piante e gli animali.
Devo molto a loro, forse la mia salvezza. Le foglie si scuotono. È un fremito di gratitudine, penso, o un tentativo di farsi notare e amare prima che tutto finisca, come gli occhi, le zampe, la coda degli animali dietro le sbarre. Dopo poco Helena rientra. Sorride.
«Da quanto tempo qui è tutto chiuso e abbandonato?»
«Due anni, sicuramente, ma il bar è in questo stato da molto più tempo.»
Penso sia impazzita. Niente può sopravvivere a tanto. Non sa come spiegare la cosa, è così e basta. Il caldo è insopportabile, per lei pesante, ma non eccessivo.