Il resto di Sara
Uno
L’aria è afosa, densa, appiccica. Anche in moto si suda. I capelli fuori dal casco, increspati dall’umidità, svolazzano isterici al vento caldo e si arrotolano come cannoli. È rosso all’incrocio tra la Consolare Pompea e la discesa di Sperone: Sara si ferma al semaforo e prende il cellulare, scrive due righe e monitora la luce dell’alt. “Vado a casa, mi aspetti per la buonanotte?”. Chiude con un cuore grosso, rosso e pulsante che ci sta sempre bene, tocca invio e il telefono può scivolare nella tasca del pantalone.
Verde: Sara ingrana la prima e la Vespa PX 125 bianca del 1983 riparte, insicura da sempre, non tanto per i suoi anni ma per le ruote piccole, i freni approssimativi e il motore nel bauletto sinistro che fa peso soltanto da un lato. La Vespa è una contraddizione e non è per tutti, è un modo di essere e chi la porta si crede quel modo di essere: incerto e immortale. Sara si sente come il suo “vespone”.
Una vecchia Golf corre giù per la discesa, il giallo diventa rosso, l’accelerata indecisa dell’ultimo momento, “Passo o non passo? Passo”, e il fiato risucchiato per tagliare la strada quasi a occhi chiusi. Peccato che le misure e i tempi siano sbagliati e l’impatto è preciso e violento. Sara stava ancora tirando la prima e senza ali ha preso il volo. Quanto dura la discesa? Dove atterro? Cosa resterà di me? Domande in caduta libera come lei, senza risposta, sperdute nel groviglio del cervello o finite in quel per sempre da cui non si torna.
Dal cuore grosso e pulsante a finire per terra è un attimo. Sbattuta sull’asfalto caldo di una giornata che ha sfiorato i quaranta gradi, senza accorgersi di niente, senza sapere se c’è un cuore reso che trema per lei nel suo telefono.