“Il maragià di Firenze” su La poesia e lo spirito
Paolo Ciampi, “Il maragià di Firenze”
Nonostante i capelli sale e pepe, Paolo Ciampi ha l’aria di un eterno ragazzo, anche se ragazzo, ormai, non è più. Sorriso aperto, modi affabili, parlantina sciolta, Paolo quando può inforca la bicicletta e i suoi libri assomigliano un po’ a una passeggiata in bici: imbocca una pista, fa una deviazione, prende un sentiero che non si sa dove porti, ritorna sulla ciclabile ma ne esce subito in cerca di qualcosa di diverso. Accade così anche con Il Maragià di Firenze, appena uscito per Arkadia Editore, l’ultimo di una serie di libri che parlano di persone più o meno note, delle loro vite più o meno nascoste, e nello stesso tempo parlano anche di Paolo, di come si ingegna per documentarsi sui personaggi che l’hanno incuriosito, dei problemi che le sue ricerche gli pongono, delle domande che gli suscitano. Questa volta si tratta nientemeno che di un Maragià, un giovane indiano sovrano di un piccolo Stato, ai tempi in cui l’India faceva parte dell’Impero britannico, quindi un Maragià sotto tutela, educato e custodito dagli inglesi. Siamo nel 1870 e il Maragià fa un viaggio in Europa: il tipico viaggio di formazione dei giovani di buona famiglia. La sua meta principale è l’Inghilterra, ma il suo tour continua in Olanda, in Francia, in Austria e infine in Italia. Venezia, Firenze. Purtroppo nel corso del viaggio il ragazzo si ammala e l’Italia non riesce a godersela: a Firenze muore, e il Comune autorizza un funerale secondo l’uso indiano, con tanto di pira e di ceneri sparse alla confluenza tra l’Arno e il Mugnone. Qualche anno dopo la madre dello sfortunato principe viene a Firenze e tra le altre cose fa erigere un monumento in ricordo di suo figlio, al parco delle Cascine, vicino al luogo in cui si è svolto il rito funebre. Paolo Ciampi, che frequenta un bar dalle parti del monumento, è attratto, in un modo che nemmeno lui riesce a spiegarsi, dal busto del giovane sotto il baldacchino, dalla sua espressione imperturbabile, dal suo destino ingrato, e in qualche modo gli promette di raccontarne la storia. Ma non è facile, il materiale disponibile è scarso, e comunque l’impressione che si ricava dalla lettura del libro, con le sue giravolte, le divagazioni, gli aneddoti, le poesie citate e i boccali di birra scolati in cerca di ispirazione, è che in fondo il Maragià sia un pretesto per qualcosa di più profondo: una riflessione, condotta con quella leggerezza solo apparente che è un po’ la cifra di Paolo, sulla vita, sulla morte, sul destino che attende ciascuno di noi; sul tempo che passa, sui sogni che avevamo da ragazzi e che poi, il più delle volte, finiscono ben ripiegati in un cassetto; sui viaggi che abbiamo fatto e su quelli che non faremo mai, e sui libri, che sono anche loro viaggi.
Marisa Salabelle
Il link alla recensione su La poesia e lo spirito: https://bit.ly/3oFiV3f