“Il maragià di Firenze” su Giuditta legge
Lo scaffale di Andrea: Il maragià di Firenze
QUELLA STATUA SILENTE LÀ DOVE FIRENZE FINISCE
C’è, dove Firenze finisce, alle Cascine, una statua. È una statua che immortala un indiano. Non è un nativo americano, ma si tratta di un indiano che viene proprio dall’India. Cosa ci fa un indiano alle Cascine? E quella statua ha una storia? O, per meglio dire, è possibile ricavarne una storia? Questa è la scommessa di Paolo Ciampi, che ci ha abituati a libri in cui narra di personaggi che sembrano essere ai margini della storia di Firenze e della Toscana. Ci si accorge, invece, dopo poche pagine, della loro fondamentale importanza, di quanto essi svelino delle vicende di una regione, di una città. Basti pensare al bellissimo “L’ambasciatore delle foreste”, a quel George Perkins Marsh, ecologista ante litteram, che con Firenze e la Toscana ebbe rapporti assidui. E ora questo splendido e sfaccettato “Il Maragià di Firenze”, edito da Arkadia di Cagliari nella collana “Senza Rotta”, curata da Marino Magliani, Luigi Preziosi e lo stesso Paolo Ciampi. Paolo Ciampi, fiorentino, è stato giornalista, è scrittore e viaggiatore. Come si diceva più sopra si interessa di personaggi che sono stati dimenticati dalla grande Storia. Ha ricevuto molteplici riconoscimenti, è molto attivo nella promozione degli aspetti sociali della lettura e partecipa a numerose iniziative nelle scuole. Impossibile dar conto di tutte le sue pubblicazioni. Ne citerò qui solo alcune: “L’ambasciatore delle foreste (Arkadia 2018), romanzo con cui è stato candidato al Premio Strega 2019 e pluripremiato; “Tra una birra e una storia” (Betti 2019); “Gli occhi di Firenze” (La Bottega Errante Edizioni 2019); “L’aria ride” (Aska 2017); “Un nome” (Giuntina 2006). L’incipit de “Il Maragià di Firenze” coinvolge immediatamente il lettore con una scrittura fortemente evocativa, intessuta di una nostalgia e di una malinconia dal sapore vagamente proustiano. Una scrittura densa, leggera, nomadica allo stesso tempo. Che apre squarci sull’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza. Una cifra stilistica che si intreccia, senza nessuna forzatura, con la storia che l’autore desidera, desidererebbe raccontare. Sì! Perché il problema è proprio questo: è possibile narrare la storia di questo indiano di cui si sa così poco? Quali sono le reali possibilità, le difficoltà, gli ostacoli? In realtà il libro si configura come la narrazione di una doppia storia: quella dell’indiano e quella dell’autore che, di quell’indiano, cerca di raccontare le vicissitudini, una sorta di metastoria. Chi è quell’indiano? Secondo la grafia del giornale “La Nazione” è il Rajah Muharaja de Kolapore, il primo Maragià che, dall’India, arriva in Europa. Sua Altezza Reale Rajaram Chuputtrapunti che, nell’autunno del 1870, alloggia all’Hotel Royal de la Paix, zona Cascine, lo stesso Hotel che ha ospitato la Regina Vittoria. Nel 1866 il ragazzo ha sedici anni e lo zio, che ha perso tre figli, lo sceglie come suo successore. Viene affidato al capitano Edward West e gli verrà impartita una educazione britannica. Morirà a Firenze a vent’anni, ma su questo tornerò più avanti. Per comprendere cosa abbia fatto in quel breve periodo della sua vita, quali fossero i suoi sentimenti e le sue emozioni, Ciampi utilizza quel paradigma indiziario – sfrondato, però, di ogni positivismo – che ha studiato in modo approfondito lo storico Carlo Ginzburg. Un paradigma che si è affermato grazie agli studi del critico d’arte Morelli, ai romanzi di Conan Doyle, alle ricerche di Freud. È attraverso i piccoli segni, tracce che potrebbero sembrare insignificanti, lapsus, dimenticanze che si arriva vicini alla verità. Ciampi segue questa strada, almeno per una parte della sua indagine. Si serve di emeroteche, dei libri della sua biblioteca, dei giornali d’epoca, di Google. Però, spesso, si lascia guidare dalle sue intuizioni, dalle sue emozioni, dai suoi sentimenti, dal caso. Tanti sono gli spazi bianchi, i vuoti, i silenzi, i non detti, le lacune. Tutto questo non permette di avere troppe certezze. La statua sembra refrattaria a raccontarsi, sembra nascondersi dietro alla pietra di cui è fatta. Viene da chiedersi: chi è il protagonista del libro? È il Maragià? È Paolo Ciampi, detective sui generis, visto che non ci sono delitti o assassini da scoprire? E che rapporto c’è tra l’autore e il narratore? Lascio l’eventuale risposta al lettore. Qui assumo che autore e narratore siano la medesima persona. Quello che accade è che tra il narratore (per me Paolo Ciampi) e la statua, che diventa, non solo oggetto di studio, ma anche di riflessione esistenziale, si crea un rapporto speciale grazie alle continue escursioni in bicicletta di Ciampi alle Cascine: frequenti flanerie ciclistiche, frequenti soste per una birra e momenti in cui riflettere. Flanerie con la bici in direzione mare e con l’Arno sulla sinistra. Con l’obiettivo di sollecitare la statua a parlare, ma con la statua che resta silente. Ed è in quelle flanerie, in quelle soste tra una birra e una storia che Ciampi si sofferma su grandi autori come Shelley, Foscolo, Leopardi, Paul Nizan (su cui tornerò dopo). Hanno tutti in comune riflessioni sulle rimembranze, sulla precarietà dell’esistenza umana, sulla caducità. E’ in quelle soste, in quelle escursioni ciclistiche che a Ciampi tornano alla mente studiosi che, in qualche modo, hanno avuto a che fare con l’India e con Firenze, come De Gubernatis o Mantegazza. Sono pagine queste, molto belle e che vanno assaporate, lette e rilette senza fretta. È quando Ciampi comincia a rivolgersi con il tu alla statua e a chiamarla con il nome Rajaram che il rapporto diventa più stretto benché la statua continui a restare silente. Sappiamo dall’esperienza e dalla psicoanalisi quanto sia importante il dare il nome, la fase della nominazione. Sappiamo quanto dare un nome possa rivelarsi un campo di battaglia tra le famiglie e quanto sia importante, per il soggetto, il nome che porta. Sappiamo, inoltre, sempre dalla psicoanalisi, quanto siano importanti le lacune, i silenzi, gli spazi bianchi, i segreti perché, sovente, è dai segreti di famiglia, dai non detti che possono nascere le patologie psichiatriche. È, quindi, fondamentale avere il maggior numero di elementi possibili per ricostruire una storia. Il diario del Maragià, che sarà pubblicato nel 1872, è un nuovo tassello che Ciampi ritrova casualmente: “Certo non è un capolavoro della letteratura di viaggio, basta poco per convincersi. Più che altro è una sorta di promemoria, un catalogo di fatti del giorno. Ho visto. Ho incontrato. Ho salutato. Poche frasi semplici, lineari, verbo e complemento oggetto. Niente a che vedere con lo sguardo di un uomo di cultura venuto da lontano. Tanto più che Rajaram scrive in inglese e, malgrado la padronanza della lingua, non è la sua lingua” (Pag.71). È la cronaca di un diario di viaggio, il primo diario di viaggio che sarà anche l’ultimo. Il Maragià è, prima, a Parigi, poi, a Londra, nel centro dell’Impero dove sperimenta spesso la gentilezza. L’incontro con il Primo Ministro Gladstone ne è impregnato. Forse è proprio Gladstone a consigliare al Maragià di fare tappa in Italia, a Firenze. Poi di nuovo in viaggio, quello che dovrebbe essere il viaggio di ritorno: il Belgio, Colonia, Francoforte, Monaco, il 12 novembre Innsbruck. È il giorno dopo, il 13, che Rajaram comincia ad avere la febbre e continua ad averla anche nei giorni successivi. Ma qui, probabilmente sul Brennero, il diario si interrompe. E Ciampi, che si definisce giustamente un cacciatore di silenzi ( e lo ha dimostrato in quel bellissimo libro su Dino Campana e Sibilla Aleramo che è “L’aria ride”) qui gioca tra le parole e il silenzio. Vorrebbe penetrare negli interstizi fra le parole, spremere le parole del diario, far parlare il silenzio, soprattutto quando il diario si interrompe. La morte del Maragià avviene, presumibilmente, il 30 novembre 1870, il suo funerale nella notte tra il 30 novembre e il 1° dicembre. Ed è una coincidenza interessante che questa recensione esca esattamente a centocinquant’anni precisi dalla morte del Maragià. Abbiamo notizia della morte da “La Nazione” che cita il sindaco di allora, il Commendator Ubaldino Peruzzi. Allo stesso Peruzzi Paolo Ciampi dedica belle pagine nella parte in cui viene descritto, in modo suggestivo, il funerale indù del Maragià, celebrato di notte. Al lettore il piacere di scoprire il fascino di quella descrizione. Qui basti dire che non solo era necessario un fiume per spargere le ceneri, ma una confluenza di fiumi: il Mugnone, che allora passava per le Cascine, e l’Arno. Scrive “La Nazione: “Giunto il corteggio funebre al punto estremo delle Cascine, là dove il Mugnone si getta nell’Arno, in luogo detto il Barco, in una larga spianata appositamente scelta per eseguire l’abbruciamento del cadavere era situato un rogo composto di grosse legna intrecciate alto un metro”. Commenta subito sotto Ciampi: “Così leggo, e l’italiano non brilla, però ci siamo. Questa pagina per riportarmi a quella notte. Questi appunti per cimentarmi con il mistero di una vita che non è la mia o forse sì. Questo posto, esattamente questo perché è qui che è stato” (Pag. 62). E qui l’Arno diventa il Gange, Firenze l’India, l’Oriente e l’Occidente coincidono. C’è un elemento fondamentale che deve essere preso in considerazione nella lettura di questo libro: il senso della finitudine, quella finitudine così lucidamente analizzata da Telmo Pievani nel suo ultimo libro “Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà” (Raffaello Cortina Editore 2020). Come scrivevo più sopra, tutti gli scrittori che Ciampi cita nelle sue soste alle Cascine (Shelley, Leopardi, Foscolo, Nizan…) si confrontano con la finitudine. Paul Nizan si confronta anche con il dramma di avere vent’anni: “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita” (Pag. 90). Non lo ricordo bene, forse Nizan scrisse questo in “Aden Arabia” (Mondadori 1961). Quello che è importante è che Ciampi, nei suo vent’anni, esibiva questa frase come, del resto, facevo anch’io. Non lo avrebbe certo fatto Rajaram che a vent’anni muore. Eppure anche questo riferimento a Nizan ci fa percepire che viviamo nella precarietà, che la caducità, splendidamente descritta da Freud in uno suo brevissimo saggio, forse il suo più bello – “Caducità” – è la nostra condizione di esseri umani con cui dobbiamo fare costantemente i conti. A proposito Ciampi scrive una pagina stupenda: “Questa morte che da sempre avverto al mio fianco. Lo so che non si dovrebbe concederle la signoria della propria mente, ma così è, così sono fatto, vado ai cimiteri per collezionare date, ispeziono le biografie per soppesarne l’inizio e la fine. E facendo in questo modo, in realtà, è della mia vita e della mia morte che mi occupo. Questa ansia che comunque da qualche tempo è diventata più lieve, incredibilmente più leggera che nei miei vent’anni. Proprio ora che la strada si è fatta più corta. E in questo c’è il tuo zampino Rajaram. Non so dire come, ma in qualche modo mi hai fatto bene” (Pag. 125). Ma c’è anche un altro tipo di finitudine. È la finitudine che riguarda, imperi, nazioni, capitali, città: qui la finitudine riguarda Firenze capitale che, poco dopo quell’autunno 1870, capitale non la sarebbe stata più: “Questo 1870, quando anche i fasti di Firenze capitale stanno per concludersi. Un sogno durato lo spazio di cinque anni, appena il tempo per farsi più belli. Come prepararsi per il gran ballo e scoprire la sera stessa che non ci sarà più. Una parentesi, il tempo. Più vera la voragine che si spalanca sotto i piedi e tutto inghiotte” (Pag. 121) Sovente ogni storia ha una sua appendice, che sia una storia completa, infinita, incompiuta, abbozzata. Qui l’appendice è costituita da una madre (di sangue o per esigenze dinastiche, non lo sappiamo) che viene a Firenze, dall’India, per ringraziare e devolve danaro per ogni istituto. Affida all’architetto inglese Charles Mant il progetto per la costruzione di un monumento dedicato a Rajaram mentre il busto sarà opera di un altro inglese, lo scultore Charles Francis Fuller che vive, in quell’epoca, a Firenze. E allora si può dire che la statua è silente, che è fatta di sola pietra ma, in realtà, parla. Anzi è parlata, direbbe Lacan. È parlata dall’affetto di una madre, è parlata dall’eredità degli affetti per usare un’espressione di Ugo Foscolo che lo stesso Ciampi richiama. Ho prima fatto cenno agli scrittori e studiosi citati, ma non bisogna dimenticare la musica. Sono citati gruppi, cantanti, cantautori che fanno da vero e proprio accompagnamento musicale al testo. I gruppi, i cantanti, i cantautori di Paolo Ciampi sono anche i miei benché io sia un po’ più anziano di lui. Spesso danno il ritmo, creano atmosfere che qui è impossibile descrivere o anticipare, E non sarebbe neanche giusto perché “Il Maragià di Firenze” è un libro che va letto, gustato pagina per pagina, parola per parola.
Andrea Cabassi
Il link alla recensione su Giuditta legge: https://bit.ly/33zKrXp