“Il maragià di Firenze” su Convenzionali
“Il maragià di Firenze”
Questa domenica mattina in cui vien facile uscire presto e per una volta non sentirsi pigri. Questa primavera che ancora stenta, che è timida nel buttare nuovo verde e che pure profuma già di inizio. Questa voglia di ricominciare, come in una canzone da Sanremo che arrossirei a intonare in pubblico. Oggi la bicicletta è il gusto dell’incoerenza. Bene diffidare da chi dopo aver deciso non si smuove di un millimetro dalla sua decisione. Da chi dopo aver giudicato non rimette in gioco il suo giudizio. Ho abbandonato l’Indiano con la brutta stagione, ora ho voglia di ritrovarlo. Sempre che gli abbia mai davvero voltato le spalle. Rajaram, chiodo che in realtà non ho provato a estirpare. Questa pedalata che è uno scoprire e un tornare. Questo azzurro che è diverso dall’azzurro dell’autunno. Questa città che sembra più serena e gentile di quanto in effetti sia. Sono già all’imbocco delle Cascine. È qui che si riuniscono i primi ciclisti, anzi, i primi velocipedisti, in quel 1870. I cavalli di ferro sono da poco apparsi per le vie italiane, destano la meraviglia dei cronisti e le inquietudini delle amministrazioni. Troppo veloce, troppo pericoloso, quel mezzo. Firenze figura tra le città a tolleranza zero: su due ruote è consentito muoversi solo per il passeggio serale e fuori delle mura. In risposta quegli strani sognatori costituiscono un circolo con il sapore forte della sfida, il Veloce Club. Quindi stabiliscono di organizzare una corsa, per i primi di febbraio: la Firenze-Pistoia, trentatré chilometri di nuvole di polvere…
Il maragià di Firenze, Paolo Ciampi, Arkadia. Che cos’è che ci rende uguali? Che cos’è che ci rende diversi? Quando arriva dall’India in viaggio di studio e conoscenza in Europa dopo essere passato per l’Inghilterra, dove ha anche reso omaggio alla regina Vittoria, a Firenze, che sta per perdere definitivamente lo status di capitale del regno d’Italia, con tutte le sue peculiarità, d’improvviso, quel primo maragià che avesse mai varcato i confini del suo continente, affascinato dalla bellezza, ancora giovanissimo scompare per un malore fulminante il trenta di novembre, mentre alloggia nel Grand Hotel di piazza Ognissanti. Secondo il rito indù alla confluenza di due fiumi, nel caso specifico non certo il Gange o un altro corso d’acqua orientale, bensì l’Arno e il Mugnone, il corpo viene arso e le sue ceneri disperse, determinando la curiosità di molti, tanto che a lui, lo sfortunato Rajaram Chuttraputti di Kolhapur, sono stati dedicati nel corso del tempo un monumento alle Cascine, una palazzina e un ponte: da questa storia, con garbo, Paolo Ciampi prende le mosse per meditare sul senso della vita e dell’eredità che si lascia quando tutto finisce. Da leggere.
Gabriele Ottaviani
Il link alla recensione su Convenzionali: https://bit.ly/3lJkg8L