“Il maragià di Firenze” su Alibi Online
UN PERSONAGGIO RISCATTATO DALL’OBLIO
In libreria “Il maragià di Firenze”, di Paolo Ciampi (Arkadia editore)
Capita assai di rado l’opportunità di recensire un libro esattamente 150 anni dopo le vicende che esso evoca. Perché il principe indiano Rajaram Chuttraputti, attorno alla cui figura Paolo Ciampi intesse le sue raffinate pagine, è morto a Firenze proprio l’ultimo giorno di novembre del 1870. Un passo indietro. Tra le abitudini dello scrittore, come lui stesso ci racconta, vi è quella di raggiungere, in bici, la zona delle Cascine, nell’estrema periferia della sua città, “dove finisce il parco, dove anche Firenze sembra finire”, e bere birra nel bar del luogo, guardandosi attorno con rilassata lentezza. Già in queste primissime pagine sfavillano, sottotraccia, cortocircuiti culturali e letterari (Montale: “Accosto il volto a evanescenti labbri”; Philippe Dellerm: “La prima sorsata di birra e altri piccoli piaceri della vita”…) e si apprezza tutta la sapiente scrittura di Ciampi: impeccabile, senza una sola sbavatura, “parole giuste” per senso e suono, non un segno di interpunzione di troppo e non uno in meno del necessario. Un esempio a caso: “L’ultimo Sole è un disco rosso che stende i suoi colori. Incendia il cielo, sottrae consistenza alle colline intorno. Diluisce i gesti e conferisce una singolare intensità ai pensieri. (…) Le giostre tracciano incessanti cerchi in aria, ritmo della malinconia che si traveste da solennità…”.
Il recupero della storia
Ma riprendiamo il filo. Nei pressi del suddetto bar periferico, sorge un monumento commemorativo, con alla base un’iscrizione in italiano, inglese, hindi e punjabi, e con in cima il busto di un personaggio: un “enigma di pietra” che “per tutti [è] l’Indiano”. Anche l’autore lo ha sempre indicato così, con indifferenza. Senonché, qualche giorno prima, durante un incontro pubblico tenutosi proprio accanto, assieme all’amico Marino Magliani, a Ciampi “è scappato detto”, accennando alla statua, di voler scrivere un libro sull’uomo che essa raffigura. E proprio da questo impegno parte il racconto. Il quale è, sì, recupero del personaggio e delle sue vicende, ma anche narrazione (in una sorta di viaggio-non viaggio) di come il libro viene man mano costruito, riflessione sulla scrittura, e soprattutto omaggio alla città “che, malgrado tutto, ancora oggi non si è lasciata ridisegnare dagli architetti della diffidenza e della paura. È per questo che mi sono avventurato in una storia che non è proprio una storia. Più per Firenze che per te” dice Ciampi rivolto all’Indiano. L’Indiano arrivava davvero dall’Asia. Scorrendo i microfilm con gli antichi numeri del quotidiano fiorentino “La Nazione”, e abbinandovi ricerche effettuate su Google, Ciampi riesce pian piano, nel corso delle pagine, a far emergere il “Rajah Muharaja de Kolapore” (così lo denominava il giornale dell’epoca) dalla nebbia di oblio in cui il secolo e mezzo nel frattempo trascorso lo ha sprofondato.
Associazioni di idee
Non voglio guastare ai lettori il piacere di scoprire da soli, gradualmente, al fianco di Ciampi, quel che è ancora possibile conoscere su questo giovane sovrano di uno dei molti staterelli dell’India coloniale, nato a Kolhapur il 13 aprile 1850 e deceduto nel capoluogo toscano – allora Capitale d’Italia – per colpa di una “febbre perniciosa” contratta attraversando le Alpi durante il proprio “viaggio di formazione” in Europa. Voglio però riportare alcune delle considerazioni e associazioni che mi sono affiorate man mano che procedevo col libro. La traduzione dei vari brani (in verso e in prosa) interpolati, di autori stranieri o antichi, è da attribuire direttamente a Ciampi, mostrando la stessa indubbia qualità linguistica della sua scrittura originale. La quartina di Emily Bronte posta in epigrafe ha una solennità shakespeariana molto efficacemente riprodotta. Il dono del Granduca de’ Medici alla città di Goa mi ha fatto pensare all’elefante indiano che il Re del Portogallo volle offrire all’arciduca d’Austria, vicenda sulla quale José Saramago ha incentrato il proprio romanzo “Il viaggio dell’Elefante”. Anche Fernando Pessoa si direbbe chiamato in causa: “La vita delle persone, che sembra una e invece sono una moltitudine”. E legati, in qualche modo, a queste idee compaiono i riferimenti espliciti alla “Canzone della bambina portoghese” di Francesco Guccini e al “Notturno indiano” dello studioso pessoano – e lisboneta adottivo – Antonio Tabucchi. Più volte, lungo i 13 capitoli, compare il nome (il nume…) di Dino Campana. Ma viene anche citato Guido Gozzano, “poeta crepuscolare” il cui “Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India” è da ritenere, a parer mio, l’opera migliore che questi abbia scritto. Mi è piaciuta l’allusione al celebre incipit del romanzo “L’età incerta” (The go between, nell’originale, ma tradotto anche come “Messaggero d’amore”), di Leslie P. Hartley: “voglio liberarmi del tuo passato, per me terra straniera…”. Come pure l’ammiccamento al poeta Dylan Thomas (And Death shall have no dominion – E la Morte non avrà dominio) contenuto nell’annotazione “Questa morte che da sempre avverto al mio fianco. Lo so che non si dovrebbe concederle la signoria della propria mente…”. O il richiamo a un titolo di Marguerite Yourcenar: “I ricordi sono acqua che scorre”.
Etimologie e congiuntivi
Alcune piccole note finali. Sole e Luna vengono scritti con l’iniziale maiuscola, seguendo scrupolosamente la regola ortografica secondo la quale “I nomi dei corpi celesti vanno in maiuscolo (es.: la Terra, la Luna). Le parole terra, luna e sole vanno invece minuscole quando non presentano accezione astronomica (es. come in cielo così in terra, chiaro di luna, giornata di sole)”. Un po’ come fa Beppe Sebaste, l’autore allude all’etimologia di alcune parole-chiave (Autunno, da Augeo-augere-auctum, aumentare; Esitazione, da exit esce, o ex situ, fuori posto; Scordare, da ex corde, fuori dal cuore…), per aumentarne la pregnanza semantica. In un’epoca in cui si dice ormai morto il congiuntivo, Ciampi lo impiega ancora, e con estrema precisione: “Avanza il sospetto che non sia questione di chilometri, ma di distanza interiore. E che i soli viaggi che contino siano quelli in cui non ci si stanca di ritornare”. I fumetti che indica come sua lettura infantile (Tex, Zagor, Blek Macigno…) sono gli stessi miei. Anche la canzone Jokerman, di Bob Dylan, l’avevo ascoltata al momento dell’uscita del disco… E adesso mi fermo, altrimenti
non la smetto più. Potenziali lettori, spero di avervi invogliati a sufficienza…
Marco Grassano
Il link alla recensione su Alibi Online: https://bit.ly/3lqtnJt