Il lato sbagliato del cielo
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Demoni, dannati e angeli distratti
Flossenbürg, Germania, metà gennaio 1945
“Anche gli angeli caduti, mentre giacciono nel fango, possono ancora contemplare la gloria delle stelle, e pensare che un giorno vi faranno ritorno”. La frase rimbalza per la mente di Rainer fin quando si è alzato, per quanto si sforzi di ricordare da dove provenga. Gli pare che appartenga alla sua infanzia, a uno dei libri illustrati di suo fratello, o forse a uno dei sermoni di Padre Brandt, le ultime volte che è stato in chiesa.
Scrolla le spalle, e un alito gelido gli si infila nel colletto dell’uniforme, facendolo rabbrividire e sbattere con forza le palpebre. Torna a mettere a fuoco il campo davanti a lui, che mostra da solo tutta l’insensatezza di quella frase. Lui ha visto le stelle cadere a una a una, ogni stella un angelo, ogni stella un frammento della bontà del mondo che svanisce. Finché non è calato il buio, e non è rimasto alcun paradiso a cui tornare.
Rainer Fiehler ha 22 anni. Li ha compiuti a settembre dello scorso anno, in un ospedale militare, una settimana dopo l’esplosione di una granata.
È Oberscharführer, sergente maggiore, nelle Waffen-ss. Un grado che si è guadagnato sul campo, in tre sanguinosi anni sul fronte orientale.
La sua altezza raggiunge a stento i 170 centimetri richiesti dall’arruolamento; ha lineamenti minuti, capelli biondi e occhi blu, come un cielo estivo ma un po’ offuscato. Da piccolo, sua madre lo chiamava “Il mio angelo”.
Ed è più o meno così che, a sua insaputa, hanno preso a chiamarlo i prigionieri: “angelo della morte”. Non perché l’abbiano mai visto uccidere qualcuno, ma perché ha sempre un’aria assente, distaccata, quasi ultraterrena. Un po’ come gli angeli marmorei dei cimiteri. Un angelo in incognito dietro un teschio sul berretto e una costellazione di cicatrici. Un angelo con ali bruciate dal fuoco di incendi lontani, finito chissà come all’inferno. Magari inviato da un dio indifferente a raccogliere le loro anime, o ciò che ne resta.
Ma Rainer non ricorda di aver avuto delle ali, non ricorda i cieli estivi che un tempo erano nei suoi occhi. Non si sente affatto un angelo. Se ha un’aria distante è solo perché vorrebbe essere da un’altra parte.
E in qualche modo è già così: a volte si deve sforzare per ricordare dov’è o cosa sta facendo. Vive in una sorta di nebbia grigia, soffocante eppure confortevole, gemella della coltre di gelo fumoso che avvolge le colline. La sua memoria fa spesso cilecca, e a lui sta bene così. Dà la colpa alla granata, che gli ha quasi portato via la gamba sinistra e l’ha lasciato incosciente per giorni. La verità è che ciò che si agita negli angoli bui della sua memoria ha artigli d’acciaio e canini avvelenati, ed è più sicuro lasciare che dorma.
Da circa due mesi Rainer fa la guardia al campo di concentramento di Flossenbürg, in Baviera, a una manciata di chilometri dal confine boemo. Appena dimesso dall’ospedale l’hanno trasferito qui, perché oramai non è più utile al fronte. Gli hanno ricucito le varie ferite, sistemato in qualche modo la gamba, ma è chiaro che non correrà mai più. A stento cammina, zoppicando.
L’inverno da queste parti è aspro e interminabile, si aggrappa con dita uncinate alle colline boscose, al terreno gelato delle cave di pietra, al filo spinato merlettato di brina. L’alba si fa strada a fatica in una bassa foschia, che sfiora con lingue gelide le cime spolverate di neve degli abeti e taglia fuori gli uomini dal cielo.
Lentamente, i dannati emergono dalle ombre tra le baracche, in un silenzio grigio e pesante quanto i loro volti. Qualcuno si attarda, e un sorvegliante sollecito lo incoraggia ad andare più svelto, con l’ausilio di fruste e manganelli. Si riuniscono tutti nella piazza dell’appello, calpestando la neve già sudicia, anche quelli morti durante la notte, trasportati dai compagni e disposti in file ordinate a fianco ai vivi.
Oggi c’è un gruppo nuovo, un centinaio. Quasi ogni giorno oramai ne arrivano di nuovi. Molti proseguono per Dachau o Mauthausen, o verso i campi più piccoli, come Hersbruck; quelli che invece restano si schiacciano in ogni buco libero delle baracche stracolme.
Dagli altoparlanti risuona la Polonaise in re maggiore di Beethoven, le squadre di lavoro si avviano. Alla fine rimangono solo i nuovi. Gli sguardi guizzano attorno, smarriti o ansiosi, mentre il Lagerführer, comandante in capo della sicurezza del campo, tiene il suo discorso di “accoglienza”. Lo stesso a ogni gruppo, da quando Rainer è qui. E, come per gli altri gruppi, quasi nessuno parla tedesco abbastanza bene da capire quel che dice.
Gli uomini raccolti lì davanti sono di almeno dieci nazionalità diverse, i più provenienti dai campi dell’est smantellati, mentre altri sono civili o membri della resistenza rastrellati durante la ritirata tedesca. Si riconoscono alla prima occhiata quelli che non vengono dai campi, perché hanno ancora gran parte della loro carne addosso, sotto gli informi cenci a strisce.
Perlopiù evitano di guardare Rainer e i suoi colleghi, schierati intorno al Lagerführer. Quest’ultimo seguita con i suoi latrati, emettendo sbuffi di vapore che si condensano sul colletto inamidato dell’uniforme.
Rainer lascia vagare gli occhi distratti sui prigionieri, che si affrettano a distogliere i loro. Uno però, di quelli più robusti e sani, incrocia il suo sguardo e lo sostiene.
Lucjan Krasinski ha 17 anni. Li ha compiuti due giorni dopo Natale, sul convoglio di metallo sovraffollato che l’ha portato qui. Quel giorno è passato senza che lui se ne ricordasse. Sua madre non l’avrebbe dimenticato, nemmeno in una simile situazione. Lei però è rimasta da qualche parte sotto le macerie fumanti di Varsavia.
Il resto della sua famiglia si è disperso anni prima: una sorella lontana, un fratello con la resistenza, uno zio sparito chissà dove. Lucjan è rimasto a casa per proteggere sua madre, ma quando la città è insorta ha imbracciato le armi come gli altri, anche più giovani di lui, e ha imparato a combattere.
Ha commesso però diversi errori: ha lasciato sola sua madre nel momento sbagliato; ha anche lanciato una granata nel momento sbagliato, mentre un bambino sbucava in un vicolo ingombro di macerie. Soprattutto, dopo essere riuscito a fuggire, si è fatto catturare qualche settimana più tardi, insieme ad altri che, come lui, alla resa della città avevano scelto di mescolarsi agli sfollati civili per continuare a combattere, anziché seguire il grosso dell’Esercito Nazionale nei campi per prigionieri di guerra.
È così che, una decina di giorni fa, è arrivato qui all’inferno, anche se lui non pare ancora rendersi conto di dove si trova. I suoi occhi sono grigi come le gelide pianure della sua patria, ma niente li offusca. Sono limpidi e attenti, come lame appena lucidate, o fari che fendono la nebbia. I capelli scuri, mossi e ispidi, ora non si vedono perché glieli hanno rasati a zero, lasciandogli anche dei piccoli tagli che gli tirano la pelle; non osa però togliere il berretto per grattarsi.
È forse un po’ basso per la sua età, ma ha un fisico robusto, che le settimane di prigionia non hanno ancora iniziato a intaccare. Nella divisa da prigioniero di diverse taglie più grandi, con un triangolo rosso cucito sopra e una grossa P di Pole, sembra però un bambino con il pigiama del padre.
È circondato da file e file di altre anime perse come lui, in piedi da più di un’ora tra le spirali taglienti del vento. Con discrezione, ritira un po’ di più le mani all’interno delle maniche, che gli arrivano fin sulle unghie; muove appena le dita dei piedi, che si stanno congelando negli zoccoli di legno impantanati nella neve fangosa.
Quando incrocia lo sguardo della ss, ha un piccolo sussulto e non riesce a distogliere gli occhi dal giovane.
Rainer è infastidito da questa inattesa audacia. Il discorso dell’ufficiale diviene un ronzio indistinto nel suo orecchio, l’unico ancora buono, mentre la sua attenzione si fissa su Lucjan. Lo sguardo del ragazzo polacco stranamente non contiene odio, né sfida, eppure c’è comunque un’emozione, qualcosa che non riesce a decifrare e che lo disturba.
Il motivo per cui ne è infastidito non è, come si potrebbe pensare, che il prigioniero non mostra la dovuta sottomissione. Forse sarebbe così nel caso del caporale Otto Scholz, che avremo il dubbio piacere di conoscere in seguito. Ma per Rainer la questione è più semplice, e insieme più complessa: qualsiasi cosa che spezzi la monotonia delle procedure, costringendolo a fissare la sua attenzione, a vedere, è una minaccia al suo precario equilibrio, al sottile filo di nebbia su cui cammina, sotto il quale sono in attesa le nere fauci spalancate della follia.
Vorrebbe andare là e colpire Lucjan, fino a fargli abbassare quegli occhi. A trattenerlo è la consapevolezza che il Lagerführer sarebbe irritato per l’interruzione, o il timore che possa ripetere il discorso da capo.
Ora l’ufficiale sta spiegando che i prigionieri verranno affidati ai vari Blockführer, i sottufficiali a capo delle baracche cui sono destinati. Il gruppo si divide e inizia a disperdersi, e lo sguardo del ragazzo polacco torna a confondersi nel mucchio.