Il codice Stradivari
Venezia, 5 dicembre 1943
Don Giulio si sistemò meglio sulla poltroncina. Infilare le lunghe gambe nello spazio angusto sotto lo scrittoio settecentesco era un esercizio che si imponeva ogni giorno con una certa severità. Una piccola mortificazione che gli ricordava come la passione per la poesia e per gli enigmi non dovesse distrarlo dalle sue mansioni di parroco.
Dedicava a quelle attività un poco del suo tempo e la scomodità della posizione lo aiutava nel suo intento.
Nell’armadio ad anta unica, aperto vicino al letto, la pianeta bianca aspettava di essere indossata per la prima messa che di lì a poco avrebbe celebrato nella sottostante chiesa di Sant’Eufemia.
Non dormiva più molto e spesso si alzava presto per comporre. Riattizzava il fuoco nel caminetto dello studio, metteva un po’ di braci nello scaldino di coccio vicino alla finestra e si stringeva nella veste da camera dopo essersi sommariamente sciacquato con l’acqua contenuta nella bacinella vicino al letto. Poi si sedeva allo scrittoio e iniziava a scrivere. Attendeva così il giorno che, entro un paio d’ore, si sarebbe levato a est, verso la laguna, come sempre.
Anche quel giorno di dicembre 1943, la luce fredda del mattino stava entrando dalla finestra sulla sua sinistra come una lama, a illuminare l’ampio quaderno e la penna appoggiata da qualche minuto, testimone della mancanza di ispirazione che l’aveva bloccato sulle prime parole.
“Là dove poggia…”.
«Don Giulio! Don Giulio!» La voce sommessa, appena udibile, veniva da giù, dalla strada, insieme a un insistente bussare alla porta del palazzo.
Giulio scavallò le gambe e aprì la finestra che si spalancò con un sussulto.
Una folata di aria gelida e densa di umidità salmastra lo colpì in volto facendolo rabbrividire.
Affacciatosi nella nebbia, riconobbe l’amico alla porta.
Franco Boralevi, rabbino della comunità ebraica di Venezia, suo buon amico e poeta con il quale spesso si era dilettato a recitare vicendevolmente i rispettivi componimenti poetici. Appassionati entrambi di rebus e sciarade, si erano divertiti, in passato, ridendo e scherzando come se le barriere imposte dal regime non fossero mai state erette. Da qualche tempo però i loro incontri si erano rarefatti e non si trattava più di visite di cortesia. Benché la distanza tra la parrocchia e il ghetto non fosse molta, erano perlopiù visite fuggevoli, dopo il coprifuoco, durante le quali Giulio portava indumenti o vettovaglie a quei disgraziati, attraverso una breccia nel muro che li isolava dal resto della città. Dall’altra parte, Franco lo ringraziava con un cenno della mano e poi spariva nell’ombra. Ora sembrava più magro del solito e si stringeva addosso un pastrano scuro che ne allampanava la figura emaciata.
«Franco, che ci fai per strada a quest’ora? C’è il coprifuoco!»
«Apri, presto!», disse l’altro guardandosi intorno come se avesse il diavolo alle spalle.
Giulio con un sospiro richiuse le ante, afferrò al volo una sciarpa e scese le scale di corsa per andare a spalancare il portone.
La nebbia appariva meno fitta.
Il volto di Franco era sfigurato da una tensione estrema. Pallido, coperto di sudore freddo, i radi capelli bianchi appiccicati sul cranio come se fossero stati dipinti uno a uno, gli occhi brucianti, stralunati.
Senza dire niente, strinse il prete per le spalle, abbassò lo sguardo e iniziò a salire le scale fino al pianerottolo.
Giulio lo seguì fino alla porta di casa che si chiuse rumorosamente dietro di loro.
«Allora?», chiese posando la sciarpa e invitando l’amico a sedersi sulla poltroncina a lato dello scrittoio.
«Arrivano, Giulio. Arrivano», disse l’altro accasciandosi.