I saperi del passato
La Nuova Sardegna
10.07.2010
C’è una poesia di Gianni Rodari che dice: «Io so gli odori dei mestieri: / di noce moscata sanno i droghieri, / sa d’olio la tuta dell’operaio, / di farina sa il fornaio, / sanno di terra i contadini, / di vernice gli imbianchini, / sul camice bianco del dottore / di medicine c’è buon odore. / I fannulloni, strano però, / non sanno di nulla / e puzzano un po’». Questi versi li hanno messi ad epigrafe del loro lavoro gli autori del 13º volume della collana «Antichi Mestieri e Saperi di Sardegna», dedicato alle «Piccole professioni e i lavori scomparsi». E’ il penultimo volume della bella collana che la «Nuova Sardegna» pubblica in collaborazione con l’editrice cagliaritana Arkadia: già da stamani i lettori potranno trovarlo in vendita in edicola insieme al giornale. I mestieri scomparsi. Scorrendo il volume, ricco di emozionanti illustrazioni e suggestive foto d’epoca, chi ha appena qualche anno di età si ritrova sorprendentemente trasportato in un passato vicino, ma ormai scomparso dalle abitudini quotidiane. Non è soltanto il mondo dei piccoli villaggi, ma anche la incredibile serie di personaggi addetti ai piccoli e piccolissimi lavori delle città: figure ormai classiche sono quelle dei «Piccioccus de crobi», i ragazzini cagliaritani che con la loro cesta accompagnavano le signore al mercato o dal porto all’albergo i viaggiatori. Restano di loro fotografie anche loro «classiche», eseguite dai primi grandi fotografi cagliaritani di cui ci è rimasta memoria, come Agostino Lay Rodriguez, Luigi Cocco, Raffaele Aruj (al 1865 risale la tecnica della coloritura a mano delle fotografie, eseguita per la prima volta in Sardegna da Eugenio Aruj, figlio di Raffaele). Nel libro riemergono mestieri davvero antichissimi. Per dire, i «niargios», i nevieri che dalle montagne del Gennargentu portavano negli arsi Campidani la neve conservata nelle grotte per farne quell’autentica ghiottoneria che era la «carapigna», una sorta di granita-gelato che in Sardegna si faceva già dal Cinquecento: gli aritzesi ne avevano il monopolio e vantavano la loro abilità nel «fabbricarla». Insieme a quei gelati (ma già dal tempo degli spagnoli si era scoperta la capacità del salnitro nero di rinfrescare le vivande) i «confittureris» vendevano le cento specie di dolci che ancora si conoscono, migrando di villaggio in villaggio. E nella colorata carovana dei «carrattoneris» c’erano venditori di ogni altra specie di cibo, fino ai granchi, altra ghiottoneria, fra novembre e dicembre, per la gente di montagna. E c’erano poi i mestieri che, per essere legati alle necessità della vita quotidiana, erano ugualmente presenti nelle città maggiori e nei villaggi più piccoli. Per esempio, il «sabatteri», il ciabattino, che aggiustava le scarpe, e il «maistu e crapittas», che le faceva: esperto nelle risorse del cuoi come l’artigiano che fabbricava le selle per i cavalli o le borse e le valigie per i viaggi più lunghi. Così i seggiolai e gli impagliatori (impagliare «carigas» e «carigheddas» era un lavoro che apparteneva alla grande «specializzazione» sarda dell’arte dell’intreccio). E, sogno di ogni bambina, il fabbricatore di bambole e, più ancora, quello che le aggiustava e le restituiva alla vita. E ancora, l’orologiaio: non c’erano scuole che insegnassero il mestiere, e dunque lo si imparava in famiglia. E infine «su barberi» (c’è, nelle fotografie classiche della Sardegna, quello di Tratalias, che serve i clienti all’aperto, davanti a una folta siepe di fichidindia). Di tutti questi mestieri anche i giovani hanno una qualche conoscenza. Completamente inedito, credo, è il capitolo dedicato a «su cappottu serenicu», che il vocabolario antico definisce capo d’abbigliamento «color di castagna grosso di lana come i marinai, con un cappuccio che mettono sulla testa quando piove». Ci sono state in passato diverse ipotesi sulla sua origine. Documenti recenti assegnano la vittoria a chi ne ha sostenuto l’origine greca. In un processo intentato a Cagliari nel 1835, davanti alla Reale Udienza, dal gremio dei sarti a un gruppo di greci, i giudici sentenziarono che quel lavoro era, già da prima della fine del Settecento, monopolio di un gruppo di sarti di origine greca, che raggruppava non meno di venti famiglie. – Manlio Brigaglia