I luoghi
I
In prima: Belgrano
Dovevo andare a un indirizzo di calle Belgrano per ritirare un libro che avevo comprato su Mercado Libre. Il tizio che lo vendeva aveva un cognome strano, pieno di consonanti, e la sua pronuncia al telefono sembrava del tutto straniera. Mi diede una serie di indicazioni complicate per raggiungere, attraverso la zona di Cabildo y Juramento (quella che conosco meglio), la calle 11 de septiembre, dove si trovava l’appartamento in cui riceveva gli estranei, probabilmente il suo ufficio. Ma poi gli dissi che abitavo nel quartiere di Palermo, vicino alla calle Cordoba, e lui cambiò le indicazioni: disse che era più comodo prendere l’autobus 55 a Serrano e andare fino al capolinea, a Barrancas de Belgrano. Lì dovevo chiedere dov’era calle 11 de septiembre e, una volta trovata, imboccarla. «C’è solo un punto un po’ complicato, dove c’è un incrocio.» Pausa. «Ma in ogni modo è facile», aggiunse a mo’ di chiusura. Trascrivo le sue parole evitando di riprodurre certe stranezze (piccoli sibili, lettere mancanti o in eccesso) perché cercare di darne una rappresentazione fonetica sarebbe ridicolo.
Il libro che stavo cercando era uno di quelli che l’austriaco Peter Handke ha scritto sulla Bosnia, e specificamente sui serbi che, nel momento in cui scriveva, erano considerati i principali colpevoli (e anche i veri mostri) della guerra che insanguinò la ex Jugoslavia per lunghissimi mesi. Quel libro non era per me: serviva a un mio amico che doveva scrivere un articolo su Handke e su questo preciso argomento che gli era stato suggerito da un altro libro della stessa serie che aveva letto nell’edizione pubblicata da una università privata cilena.
La giornata era una delle solite di Buenos Aires: un va e vieni di sole e nuvole. Era sabato e le strade erano piene di padri che portavano i figli a passeggio di qua o di là, in gran parte separati (i padri) dalle relative ex mogli e i figli (da loro).
Uscire dalle strade diritte del mio quartiere, alberate e piene di bar e negozi nuovi, con la svolta brusca e diagonale dell’avenida Luis María Campos, e lasciarmi Santa Fe alle spalle, mi aveva sempre dato, come quel sabato, un senso di liberazione, di entrare in un altro territorio. Lasciavo indietro la quotidianità e in certi tratti la strada era un campionario delle diverse epoche della città: il lungo marciapiede sulla sinistra, per esempio, apparteneva a certe installazioni militari, oppure, a destra, compariva improvvisamente una specie di galleria vegetale, bella, lunga almeno un isolato, con un pergolato (non facevo in tempo a vederla che già l’avevo superata, sempre).
Mi rilassavo soprattutto mentalmente. Smettevo di guardare (però mai del tutto) le cose che sfilavano oltre il vetro del finestrino e mi concentravo, per esempio, sugli altri passeggeri. Oppure osservavo, attraverso l’ampio parabrezza dell’autobus, come la strada sfilava con diverse velocità sotto le ruote del veicolo. Per due o tre isolati provavo perfino a chiudere gli occhi e lasciavo che passasse una fermata (se mi sentivo pieno di audacia, anche due) senza guardare chi scendeva, chi saliva, e dove stavamo andando. Poi riaprivo gli occhi e mi divertivo a passare in rivista i cambiamenti in ciascun posto a sedere.