Gli ultimi romantici
Le cose sono andate come passano i treni merci: con un rombo di velocità che si annuncia da lontano. Ripensandoci è difficile individuare il momento in cui percepii per la prima volta il rumore che precede lo sferragliamento, vacuo e imprevedibile, ma potrebbe essere stato, per esempio, quando poco dopo essere uscita dalla fabbrica notai che i manici delle buste di plastica mi si conficcavano nelle mani. È una cosa semplice, lo so, ma quando starò per morire – spero succeda tra molti anni – e nell’agonia mi torneranno in mente le immagini del passato, so che sarò
assistita da piccoli momenti: conversazioni insignificanti, tediose mattine di novembre, cene frugali.
In effetti era una cosa semplice, i manici delle buste mi si conficcavano nelle mani, ma tante altre volte non mi ero accorta del dolore, né dell’abbandono fisico. Ho portato le lenti a contatto fino a farmi venire l’ulcera agli occhi, ho camminato per strada con i vestiti macchiati dalle mestruazioni, ho avuto le unghie dei piedi talmente lunghe da farmi uscire il sangue dalle dita, ho bevuto perfino il vomito e ho lasciato che si infettassero ferite superficiali che io stessa mi ero procurata. Quella sera tuttavia avvertii il dolore e reagii: mi sedetti su una panchina, poggiai le buste a terra e mi massaggiai le mani. Poi, dopo giorni insonni e velati attacchi di panico, osai finalmente toccarmi il seno sinistro. Notai un nodulo vicino al capezzolo.