“Gli ingranaggi dei ricordi” su Gianobifrontecritico
Gli ingranaggi dei ricordi
Recensione a M. Salabelle, Gli ingranaggi dei ricordi, Arkadia, Cagliari 2020, Euro 15.
Con Gli ingranaggi dei ricordi, Marisa Salabelle ha realizzato un bel romanzo, dalla trama appassionante e dall’interessante ambientazione sarda, in un continuo andirivieni tra gli anni del secondo conflitto mondiale e il biennio 2015-2016.
Una narrazione polifonica, che intreccia invenzione ed eventi storicamente verificatisi, quali la vicenda di Silvio Serra, partigiano italiano, coinvolto nell’attentato di via Rasella e morto nella battaglia di Alfonsine nel 1945. A fungere da Leitmotiv le storie di due famiglie, gli Zedda e i Dubois, le cui vicende, prima condotte parallelamente dalla scrittrice, si intersecheranno nel capitolo ventitreesimo, rivelando un legame che già il lettore aveva potuto intuire. La vicenda si apre con l’arrivo a Cagliari di una delle voci narranti, Carla, a causa del ricovero di sua zia Demy, nomignolo che cela il bizzarro, ma non privo di poesia, Demoiselle, dono di un padre amato, sebbene piuttosto assente. La zia è in ospedale a causa di un infarto e le due nipoti, Donata, rimasta a Cagliari, e Carla, trasferitasi nel ‘Continente’, si alternano accanto a lei, che elegge la seconda a destinataria dei suoi racconti familiari. Narrazioni che ricostruiscono il peregrinare suo e dei fratelli Felice e Bella attraverso la Sardegna afflitta dai bombardamenti negli anni Quaranta. Parallelamente ai racconti di Demy e alle frenetiche consultazioni tra Donata e Carla per il destino futuro dell’anziana zia, seguiamo in retrospettiva (rigorosamente nei capitoli dispari, come evidenziato dall’autrice stessa in una Nota) la storia di Generosa Zedda, moglie di un medico militare, e dei suoi cari. Ormai prossima ai giorni del parto, per sottrarsi all’infuriare della guerra, si rifugia con i figli e le domestiche, le zeracche, a Sanluri. Qui trepida per le sorti dei suoi fratelli, Gisella e Silvio, quest’ultimo coinvolto nei Gruppi di Azione patriottica, attivi in una Roma sottoposta all’occupazione tedesca. Proprio a Serra si interessa un giovane laureando in Storia, Kevin, che ricostruisce la vita del prozio per la sua dissertazione di laurea, trasportandoci nel milieu universitario bolognese ai giorni nostri. Il meccanismo narrativo, come si può intuire da questi sintetici cenni, è piuttosto elaborato, perché prevede l’intrecciarsi di ben quattro voci narranti. Tre sono identificabili come narratori interni (Demy, Carla e Kevin); la quarta voce, che tace nel momento in cui il racconto di Demy si intreccia con la storia della famiglia Zedda, è quella di una narratrice esterna. Quest’ultima abbraccia spesso il punto di vista di Generosa, come appare evidente dalle frequenti incursioni nella focalizzazione interna, ma anche dalla scelta dell’aggettivazione. Spesso, infatti, tale voce narrante apostrofa Ruggero Zedda come “disgraziato” ed è chiaro che a conferirgli tale epiteto sia proprio la moglie, che si sente trascurata da uno sposo troppo dedito al lavoro e paventa persino l’idea che l’uomo abbia una relazione extraconiugale. Questa voce narrante, però, compie anche incursioni nella psiche (e nel lessico) delle zeracche o della primogenita degli Zedda e sembra una sorta di anima corale; non a caso, l’espressione “faccia ‘e mala gana” riferita al personaggio di Maria Ausilia, compatibile con l’ottica di Generosa (il suo rapporto con la ragazza appare subito piuttosto conflittuale), verrà ripetuta da Demy, come se – tratto verghiano – nella parola di alcuni personaggi riecheggiasse quella degli altri. Del resto, la coralità è uno dei punti di forza di quest’opera, che alterna molteplici registri. Il pellegrinaggio on the road dei Dubois è scandito dal comico iterarsi della scena che vede Felice, il primogenito di ‘casa’, un Gregory Peck nostrano, precedere con nonchalance e cantando canzoni di chiesa le due sorelle affaticate dal trasporto dei bagagli (il facchinaggio è poco cavallerescamente riservato interamente a loro). I racconti di Demy, in alcuni momenti anche piuttosto drammatici, si levano con levità, un po’ grazie al colorito frasario della donna, fitto di intercalari ripetitivi, e un po’ per effetto dei segni di demenza, che la inducono a dimenticare molteplici aspetti di un presente su cui ha esercitato una sorta di rimozione. Eppure la malinconia è dietro l’angolo: si pensi, a titolo esemplificativo, alle deprimenti sequenze di Villa Gioiosa, sulle quali non manca di librarsi ancora, però, l’ironia dell’autrice. Molteplici gli spunti di riflessione, soprattutto sugli eventi storici. Un susseguirsi di differenti angolazioni prospettiche arriverà addirittura a far balenare un possibile accostamento tra l’attentato di via Rasella e atti di terrorismo avvenuti negli anni Settanta, elemento che affiora, come un Leitmotiv, anche in uno dei monologhi di Demy, per poi approdare all’accorata riflessione di Kevin nel capitolo sedicesimo. Quest’ultimo mediterà sui luoghi comuni fioriti intorno a quegli eventi e alle loro tristissime conseguenze (l’eccidio delle Forze Ardeatine), evidenziando come la terribile rappresaglia compiuta dai tedeschi non possa essere ascritta a responsabilità dei gappisti. Un caleidoscopio di vite parallele; un’opera che ci conduce nei meandri della macrostoria elevando, in un avvincente e affascinante contrappunto, un inno alla forza della memoria, che valica gli angusti confini delle singole esistenze. Sintomatico è che il racconto di Demy prosegua anche nel momento in cui l’anziana donna sarà uscita di scena, quasi a voler indicare che gli “ingranaggi dei ricordi”, una volta messi in moto, divengono inarrestabili.
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