“Giovani ci siamo amati senza saperlo” su Premio Letterario Giovanni Comisso
Un elogio alle passioni giovanili attraverso i riflessi di Venezia – Intervista a Emanuele Pettener
Quando si scrive un libro ambientato a Venezia la cosa più difficile è quella di rendere la città in tutte le sue sfumature. Si devono tralasciare quei particolari che fanno tanto cartolina e si deve insistere sul dettaglio, su quegli aspetti della città che possono essere colti da chi la città la conosce bene e che magari riescano a far scaturire un ricordo, un’associazione di idee, anche in quelle persone che l’hanno visitata per un breve tempo. Si tratta quindi di creare un’entità che possa essere letta a più livelli, che si possa comprendere nella superficie, ma che ammetta anche altri livelli, più profondi, di conoscenza. Nel libro “Giovani ci siamo amati senza saperlo” (Arkadia 2022) Emanuele Pettener fa esattamente questo. La città di Venezia è sia sfondo che personaggio, può essere goduta e vista a livello superficiale, ma può essere esplorata e forse compresa anche a un livello molto più profondo. Il nostro cicerone in questo viaggio è il protagonista del romanzo, la voce narrante, quell’Ema che prende in prestito il nome dall’autore del libro. Accanto a lui ci sono lo “svizzero” Rodrigo, la soffice Barbara e Feli la turbata. I quattro sono giovani universitari, Ema vive a Venezia nell’appartamento che è stato della nonna Speranza e che ora è stato ereditato dalla famiglia. Conosce Rodrigo nel momento in cui decide di trovarsi un coinquilino e da subito si instaura, tra i due, un forte rapporto in cui sembra quasi che Ema voglia fare da mentore al giovane e ingenuo Rodrigo. La comparsa di Barbara e di Feli scompaginano gli equilibri tra questi due amici. La voce narrante è quella di Ema e, mano a mano che la storia ci viene raccontata, ci rendiamo conto che la sua brillante intelligenza, l’alta considerazione che sembra avere di sé stesso non gli sono sufficienti a “decodificare” fino in fondo i comportamenti degli altri tre. Non riesce a vedere la sofferenza che Barbara prova nel doversi sottomettere all’idea che i suoi genitori (e l’ambiente da cui proviene) le impongono. Non vede il subbuglio interiore di Rodrigo, non capisce i segni che una vita difficile gli hanno lasciato addosso. Non deduce il comportamento di Feli che è costretta a proteggere il fratellino dalla separazione dolorosa dei propri genitori. Ema è centrato su sé stesso anche quando prova a comprendere gli altri e questa sua incapacità porterà a un epilogo che non può essere previsto e che dona una nuova chiave di lettura sia al romanzo che a Ema stesso. Ema infatti risalta come personaggio cinico, narcisista, affamato di vita e di donne. La sua essenza è in bilico tra la posa da giovane intellettuale romantico e l’annoiato cronico alla ricerca di nuovi stimoli, di nuove conquiste, magari sempre più difficili da ottenere. Un po’ dandy, un po’ decadente, un po’ barocco Ema è, nel libro, quella che considero l’umanizzazione della stessa Venezia. Nei tratti del suo carattere scorgiamo gli scorci dei canali di prima mattina, con l’acqua bassa e l’odore delle alghe che marciscono al sole; ma nei suoi occhi vediamo anche la bellezza di una decorazione sul muro di un palazzo nobiliare. C’è un dialogo costante tra Venezia e Ema, c’è una certa vanità condivisa, l’impressione che entrambi vivano, con distacco, fuori dal tempo. È una cosa che si nota anche dal linguaggio che Ema utilizza per rivolgersi agli altri e a sé stesso, sarcasmo, ironia, gusto per il gioco linguistico, la battuta sempre pronta a sdrammatizzare i toni, ma a anche a nascondersi quando rivelarsi diventa pericoloso. E Ema infatti si rivela a sé stesso e a tutti noi solo nel finale. Un finale imprevisto e, proprio per questo, degna chiusura di una storia come questa. Un finale che non può essere svelato qui, ma che ci permette di carpire finalmente il significato ultimo di Ema, di vedere la sua vera natura e di provare, nei suoi confronti, un’infinita tristezza. “Giovani ci siamo amati senza saperlo” è un romanzo sensoriale. Emanuele Pettener è riuscito a condensare, all’interno del suo romanzo, differenti modi di assorbire Venezia. E quindi riusciamo, attraverso le descrizioni di Ema, a vedere la città, ma riusciamo anche ad ascoltarne i rumori, a sentirne i rumori; sentiamo sotto le nostre dita il tocco ruvido dei mattoni rossi o dell’intonaco ormai corroso dalla salsedine che si stacca dai muri e sentiamo il sapore del cibo e del vino. L’autore ha fatto un ottimo lavoro nel costruire un’impalcatura sensoriale in grado di sorreggere la storia dei quattro personaggi principali. “Vagabondavo sotto il sole come un gatto per gli angoli più remoti della città, incontravo altri gatti, le pietre di Venezia assorbivano il calore rovente, nessuna in riga, il silenzio mistico delle due del pomeriggio screziato appena da uno schiocco di stoviglie.”
L’intervista
[Gianluigi Bodi]: Uno degli elementi del tuo romanzo che mi è piaciuto di più è l’equilibrio con cui sei riuscito a descrivere Venezia. Non hai calcato la mano sul lato tipicamente turistico che forse avrebbe strizzato l’occhio al lettore occasionali, ma hai creato una Venezia leggibile a più livelli. Qual è stato il percorso che ti ha portato a questa Venezia?
[Emanuele Pettener]: Sono un mestrino americano: guardo Venezia con occhi di “foresto”: fra noi c’era un ponte, ora c’è un oceano. Ma quando scrivo pretendo Venezia sia mia, frutto della mia fantasia, inventata da me: non m’importa di quella reale (ammesso che un aggettivo del genere abbia senso, tanto più per Venezia). Gli occhi allora li chiudo, e mi concentro, e cerco di capire cosa mi offre l’immaginazione, quali sensazioni, quali parole mi suggerisce, a quali similitudini mi conduce: così Venezia diventa di volta in volta la Baghdad di Aladino, Salomè, una gatta maliziosa, una dama severa, e via dicendo.
Non vorrei svelare troppi elementi del finale perché credo che sia la conclusione perfetta per questa storia e non vorrei rovinare al lettore il piacere di scoprila, ma mi chiedevo come ci fossi arrivato, se fin dall’inizio sapevi che la storia di Ema e gli altri si sarebbe conclusa in questo modo o se l’hai scoperto strada facendo.
Ho sempre bisogno di sapere il finale, di avere un’architettura chiara e sofisticata in mente. Poi, diciamo, coloro gli spazi. Uno degli aspetti più divertenti della scrittura, per me, è il cervello che (come un editor invadente) continua a propormi, quasi per partenogenesi, scene, situazioni, possibilità che non avevo pianificato. Mi stupisce, mi mette in difficoltà, talora accetto i suoi suggerimenti, altre volte rifiuto. Alla fine ciò che conta è che scelga io, non lui.
Mi sembra che ci sia una certa corrispondenza tra il personaggio principale e voce narrate Ema e la città di Venezia. Come se Ema fosse un’emanazione della città. Sbaglio?
Oh, non sbagli! Avevo questa immagine: un bambino che affonda faccia e denti nell’anguria d’estate. Avevo voglia di scrivere una storia di giovinezza piena, sensuale, gioiosa, di erotismo solare, non venato da tetraggini come spesso accade nella letteratura italiana; una storia di desiderio allegro. E questa per me è Venezia: “antidoto al dolore, uno schiaffo alla malinconia, sprigiona ormoni da ciascun mattone, anche la polvere ha personalità”.
Ema dipinge se stesso come un novello Casanova, o almeno questa sarebbe l’intenzione. Amare le donne senza essere fatto prigioniero, ma il suo sembra un desiderio vano e allora mi sono chiesto se, visto anche il finale, Ema non sia in fin dei conti una persona fragile che si nasconde. Una persona che ostenta per non mostrare le proprie debolezze.
Non saprei, ho delle impressioni, ma non sta a me esprimerle: il libro appartiene al lettore, che ha il sacrosanto diritto d’avere (o non avere) un’opinione su un personaggio, come su ogni singola virgola del testo. Però mi piace sottolineare che Casanova nelle sue Memorie ci narra non solo i suoi trionfi e le sue conquiste (un numero risibile, tutto sommato) ma pure le sue sconfitte e i suoi fallimenti (anche a letto) e le sue tante paure (comprese quella di far cilecca, di non saper soddisfare un’amante, d’avere inclinazioni omosessuali). Tuttavia lo fa sempre con quella blasfema leggerezza, prorompente vitalità, irriducibile piacere per la scrittura che me lo rendono caro.
Gianluigi Bodi
Il link all’intervista su Premio Letterario Giovanni Comisso: https://bit.ly/3NPN1N6