“Giovani ci siamo amati senza saperlo” su Nazione Indiana
Giovani ci siamo amati senza saperlo
di Emanuele Pettener
Quello che segue è, per gentile concessione dell’editore, l’incipit del romanzo “Giovani ci siamo amati senza saperlo”, in uscita in questi giorni (Arkadia Editore)
Era un bar pieno di uomini alti. Quasi che per frequentarlo fosse richiesto superare il metro e ottantatré. Disdicevole, ma io ci andavo comunque, mi piaceva come s’atteggiava a bar americano, gli sgabelli al lungo bancone, un barista stempiato in camicia stirata di fresco e panciotto amaranto, i divanetti bordeaux e i tavolini in marmo scuro separati fra loro da tendine blu di Prussia, di modo che ciascuno avesse l’illusione d’avere la sua privacy, sorseggiando intrugli verde menta e succo d’arancia e vodka, nell’alone soffuso di piccole lampade Liberty e fumo azzurro. A quel tempo si poteva ancora fumare e il fumo faceva parte dell’arredamento, assieme a certe foto in bianco e nero di divi fumatori e al jazz che galleggiava nell’aria e faceva sentire tutti a proprio agio nella New York degli anni ’40, tombini rigurgitanti vapori e marciapiedi lucidi di pioggia, viavai di Rolls e taxi color pece. Ma fuori c’era Venezia degli anni ’90, autunnale e sublime, la solita guastafeste. Avevo compiuto vent’anni e cominciavo a sentirmi vecchio, la classica crisi di mezza età: mi piaceva prendermi in anticipo. Sicché andavo lì a distrarmi con l’orchestra di Benny Goodman e facevo finta che m’interessasse davvero, mi tenevo addosso lo spolverino nero anche se crepavo di caldo, ma il bavero che m’accarezzava la barba di tre giorni era imprescindibile, era un tempo in cui avvertivo il sospetto d’essere Lord Byron reincarnato, curioso, non avendo mai letto un verso di Lord Byron. Mi portavo dietro un libro, solitamente qualcosa di ostico e dalla copertina usurata, chiedevo al barista carta e penna e scrivevo un sonetto. Ero giovane, affamato di gloria e di femmine. Soprattutto di femmine. Quella notte di fine settembre aspettavo il mio possibile compagno d’appartamento. Mi rincresceva dover condividere la preziosa benché minuscola alcova a San Giacomo dall’Orio, ereditata da quell’angelo di nonna Speranza, ma non avevo un lavoro, e lavorare mi rincresceva ancora di più. Venezia del resto era cara. Cara e ostile. I miei m’aiutavano, non mi facevano pagare l’affitto e mi pagavano le tasse universitarie e tutto il resto, ma non potevo continuare a succhiargli il sangue come quei mammalucchi dei miei coetanei, a casa di mamma e papà fino a trent’anni, i codardi! I parassiti! Mi ero iscritto a Lettere Moderne in primo luogo per il numero esaltante di fanciulle e la competizione maschile ridotta all’osso; in secondo luogo perché sembrava relativamente facile, tanto che quelli che facevano Legge, Economia, Medicina ci disprezzavano apertamente, e disprezzo e onta risalivano ai genitori, financo ai nonni, degli uni e degli altri: fare Lettere tingeva le gote di vergogna alla famiglia del povero letterato; forse solo fare Scienze Politiche era più vergognoso. E poi sarebbe venuta Scienze della Comunicazione, che nessuno capiva esattamente cosa fosse. Noi di Lettere, disprezzati da tutti, disprezzavamo quelli di Scienze Politiche, che disprezzavano quelli di Scienze della Comunicazione, i militi ignoti. A me la Letteratura sembrava, nel contesto della misera, limitata, fulminea esistenza di un individuo, se non più importante, infinitamente più sensata di Legge, Economia, Medicina, ma comunque non m’importava un fico secco. Quello che m’importava era il piedino velato che si sollevava dalla ballerina, mentre la sua adorabile proprietaria, seduta in prima fila, succhiava la biro osservando concentrata un professore calvo; o il gesto naturale eppure così sinuoso della sua compagna che con entrambe le mani si aggiustava la bionda coda sulla nuca, lasciando nudo il collo, nel cui incavo mi sarei perso in delirio di baci; o la risata dorata di quelle tre giovinette, forse americane, sedute a bere Spritz a un tavolino sporco di un bàcaro infernale in fondo a una calle oscura, i seni poderosi dell’una sotto un body verde laguna, gli occhiali spessi e la dentatura da cavallo dell’altra, il cappellino di paglia della terza, morbida e appetitosa e tondeggiante come una cialda, il celeste estivo dei suoi occhi che incrociavo per un attimo di fuoco e m’accendevano l’immaginazione. Ah, donne donne, eterni dei!
Il link alla recensione su Nazione Indiana: https://bit.ly/3Kf3Ijj