Giovani ci siamo amati senza saperlo
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Era un bar pieno di uomini alti. Quasi che per frequentarlo fosse richiesto superare il metro e ottantatré. Disdicevole, ma io ci andavo comunque, mi piaceva come s’atteggiava a bar americano, gli sgabelli al lungo bancone, un barista stempiato in camicia stirata di fresco e panciotto amaranto, i divanetti bordeaux e i tavolini in marmo scuro separati fra loro da tendine blu di Prussia, di modo che ciascuno avesse l’illusione d’avere la sua privacy, sorseggiando intrugli verde menta e succo d’arancia e vodka, nell’alone soffuso di piccole lampade Liberty e fumo azzurro.
A quel tempo si poteva ancora fumare e il fumo faceva parte dell’arredamento, assieme a certe foto in bianco e nero di divi fumatori e al jazz che galleggiava nell’aria e faceva sentire tutti a proprio agio nella New York degli anni ’40, tombini rigurgitanti vapori e marciapiedi lucidi di pioggia, viavai di Rolls e taxi color pece.
Ma fuori c’era Venezia degli anni ’90, autunnale e sublime, la solita guastafeste. Avevo compiuto vent’anni e cominciavo a sentirmi vecchio, la classica crisi di mezza età: mi piaceva prendermi in anticipo. Sicché andavo lì a distrarmi con l’orchestra di Benny Goodman e facevo finta che m’interessasse davvero, mi tenevo addosso lo spolverino nero anche se crepavo di caldo, ma il bavero che m’accarezzava la barba di tre giorni era imprescindibile, era un tempo in cui avvertivo il sospetto d’essere Lord Byron reincarnato, curioso, non avendo mai letto un verso di Lord Byron. Mi portavo dietro un libro, solitamente qualcosa di ostico e dalla copertina usurata, chiedevo al barista carta e penna e scrivevo un sonetto. Ero giovane, affamato di gloria e di femmine. Soprattutto di femmine.