Garibaldi la spada dei Mille
PROLOGO
Caprera, Sardegna, 22 settembre 1873
Il generale piegò il capo di lato. Era stanco. Guardò verso la finestra spalancata sul giardino assolato e un accenno di sorriso sembrò illuminargli il volto. «Mi è venuta sete», disse osservando il suo ospite inglese, ritto sulla sedia al centro della stanza. «Quando parlo di battaglie e dei miei vecchi compagni, mi si secca la gola.» Come faceva nelle calde giornate estive, Giuseppe Garibaldi indugiò con lo sguardo sognante sul pino, dalla base biforcata, che cresceva nel cortile della Casa Bianca, tirata su come una estancia argentina tra i graniti, sul versante occidentale dell’isola. «Diventerà maestoso», fece, indicando l’albero.
Riempì i due bicchieri che la compagna astigiana, Francesca Armosino, aveva lasciato accanto alla caraffa d’acqua, posta sul davanzale della finestra, di fianco al carrozzino, e invitò il visitatore.
«Beva anche lei, Nicholas. Ascoltare stanca quasi quanto raccontare.»
Il piccolo Manlio si era svegliato.
«Sente? Ha fame. E piange. La sua vocina è musica per le mie orecchie di veterano.»
Dalla stanza accanto si alzò la voce acuta di Francesca, madre di Clelia, nata sei anni prima, di Rosa, morta a soli diciotto mesi, e di Manlio, venuto al mondo ad aprile.
«A tavola, è pronto!»
Clelia smise di cantare e di lanciare rametti alle galline che scorrazzavano in giardino. Fu in quel momento che il generale, dopo aver tossito, sembrò rendersi conto che gran parte della mattinata era volata via.
«Riprenderemo dopo pranzo», annunciò al giovane ospite, accaldato ma a suo agio in giacca e panciotto, stivaletti e pantaloni a vita alta.
Nicholas Richardson si schernì. «Generale, mi creda, non vorrei né abusare della sua generosità né essere troppo invadente.»
«Per Dio! La mia casa è grande abbastanza per ospitare un amico inglese! Naufrago, per di più. Senza contare che deve ancora ascoltare buona parte della mia storia.»
«Al riguardo, generale, avrei premura di…»
«Caro Nicholas, se è ai suoi affari siciliani che sta pensando…»
«No, tutt’altro. Intendevo soltanto chiedere se, sul brigantino che veleggiava nell’Atlantico verso l’Europa, lei…»
Il generale aveva già messo in movimento il carrozzino. Era una seggiola a forma di scrittoio, dono di amici, che gli consentiva di spostarsi agevolmente dentro casa.
«Ho fatto eliminare rampe e gradini. Guardi con i suoi occhi, tra le camere e negli anditi non ci sono più ostacoli. Posso entrare da solo anche nella stalla.»
Non potersi muovere liberamente come un tempo lo rendeva in realtà nervoso, però non per questo il generale si considerava un invalido. Mentre raddrizzava il carrozzino-scrittoio, colse nello sguardo dell’inglese un impercettibile, pietoso imbarazzo.
«Non mi compianga… Anche se costretto su quest’arnese sono sempre io, Giuseppe Garibaldi!»
«Perdoni l’indiscrezione, generale… Come ha perso l’uso della gamba? Ricordo di qualche guerra?»
«Una ferita, sì… In Aspromonte… Quell’accidente continua a procurarmi un sacco di guai. I medici si affannano a dirmi che si tratta di artrite reumatoide. Quel che so è che il dolore mi blocca e non posso camminare. Ma non piango né mi lamento per questo…»
Accorse Francesca Armosino.
«Peppino, ti aiuto io.»
Garibaldi lasciò che Francesca lo spingesse e nello stesso istante si rivolse al suo ospite.
«Stanotte dormirà qui, nella stanza di fronte all’orto. Domani, con calma, ci occuperemo del suo cutter incagliato a Punta Galera.» Richardson si mise di fianco al carrozzino.
«L’ho lasciato semiaffondato tra gli scogli. Oramai sarà ridotto a una carcassa.»
«In tal caso procureremo un nuovo battello perché possa proseguire il viaggio.»
Francesca Armosino sospinse il carrozzino sulla destra. Superata una porta, che dava su una scala a chiocciola, collegata alla terrazza della casa, fece segno all’ospite di essere giunti in cucina.
«Vado a prendere Manlio.»
La sala da pranzo non era grande ma tutto era bene in vista, a cominciare dagli accessori in rame che, lucidi e di varia grandezza, svelavano la loro modernità e pratica utilità.
La tavola era imbandita.
«Questo è il suo posto, figliolo», indicò il generale, invitando Richardson ad accomodarsi sulla sedia di fronte a lui.
Clelia, sorridente e rossa in viso, si sedette alla destra del padre mentre Francesca sistemò il figlioletto in una culla accanto al tavolo.
«Manlio non sopporta il fumo dei miei sigari», fece Peppino indicando il piccolo. «Vomita nel sentire il solo odore. Così mi sono imposto un sacrificio.»
«Quale?»
«Smettere di fumare i Toscani.»
Richardson aveva completato l’esplorazione della cucina. Era seduto alla destra di una piccola dispensa e poteva vedere, appesi a una parete, pentole e tegami di forme diverse. Sopra l’acquaio c’era una pompa dell’acqua. Completavano l’arredamento i fornelli e un bollitore, il camino con un girarrosto e altri utensili. Riconobbe un mortaio per il pesto, una zangola per fare il burro, un apribottiglie.
«Le piace il minestrone alla genovese?», domandò Francesca mettendo in tavola una pentola fumante.
Richardson allargò le braccia in segno di resa. «Non conosco questa pietanza ma, trattandosi del vostro cibo, non potrà che essere buono.»
«La mia Francesca cucina il minestrone con il pesto e il pesce salato. Assaggi, Nicholas, non rimarrà deluso.»
Richardson ricordò in quel momento quanto il generale gli aveva detto a proposito della carne dell’America del Sud. «Non rimpiange le bistecche uruguaiane?»
«Non ne ho motivo. Sono ancora tra le mie pietanze preferite.»
Clelia fece all’ospite una confessione: «Papà le cuoce sempre nel caminetto!»
«È vero, d’inverno mangiamo spesso il churrasco. Deve provarlo.»
«Cucino raramente…»
«Si posa una spessa fetta di carne di manzo sulla brace ardente e via via si mangia lo strato già cotto. Mandato giù quello, le assicuro che nello stomaco non resta posto per altro.»
Francesca indicò il pane adagiato in una cesta di giunchi, al centro del tavolo. «È fatto da noi, nel forno costruito da Peppino. Quello è la cocca, specialità di Caprera. Facciamo anche i canestrelli, tutto con il grano seminato in una tanca vicina.»
Garibaldi non aveva molto appetito. Dopo il minestrone, mangiò appena un po’ di frutta. Riempì i bicchieri di vino, ma lasciò il suo vuoto. «Non voglio rovinarmi il piacere di un po’ di mate.»
Clelia reclamò di nuovo l’attenzione di Richardson e fu felice di lasciarsi andare a un’altra confidenza.
«Io l’ho assaggiato…»
«A me non piace», disse Francesca addentando una mela. «L’infuso è troppo forte.»
«Credo di non aver mai bevuto nulla di simile…»
Clelia si alzò e portò la zucchetta. «Qui dentro», spiegò, «si mettono lo zucchero e l’acqua bollente, e poi si succhia con la bombiglia.»
La mostrò. «Papà ha raccontato che in America del Sud tutti succhiano da questa cannuccia con la pallottolina bucata infilata nella zucchetta.»
Finito il pranzo, Garibaldi e l’ospite inglese si spostarono in giardino. Il generale scelse una postazione all’ombra e sistemò il carrozzino verso nord. La brezza un po’ fresca increspava appena il mare azzurro.
«Lì, in fondo, sulla sinistra, c’è la mia Nizza.»
«È lì, generale, che insieme ai suoi legionari sbarcaste con la Speranza?»
«Non subito. Non subito… La partenza dall’Uruguay per l’Europa era, per noi, un viaggio verso l’ignoto.»
«Ma sapevate di dovervi battere per la redenzione nazionale…»
«Mio caro amico, l’Italia in quegli anni cos’era se non una vaga idea, un disegno ancora tutto da inventare… La sola notizia che ci era arrivata, appena due giorni prima di salpare da Montevideo, riguardava un’insurrezione a Palermo. Una fiammata, immaginammo, di un incendio che noi, digiuni di ragguagli, speravamo ardentemente di attizzare con il nostro arrivo. La rivolta siciliana risaliva a gennaio ed eravamo a corto di informazioni fresche sugli sviluppi. Quel che temevamo era arrivare tardi… Che la rivoluzione in Italia iniziasse senza di noi.»
Nicholas Richardson sorrise. Immaginò l’ansia dei sessantatré uomini di ritorno dal Sud America, sballottati dalle onde dell’oceano Atlantico. Garibaldi sembrò intuire i pensieri del suo giovane amico.
«Vuol sapere come abbiamo ingannato il tempo a bordo della Speranza?»
«Lo ricorda?»
«Come fosse oggi. Sono stati giorni brevi e felici…»
«Quanti?»
«Sessantotto. Sognavamo un futuro incerto… Ma eravamo uniti da un sentimento speciale: tornare in Italia con i cuori gonfi di patrio orgoglio…»