“Folisca” su Il Sole 24 Ore

Violenza, la “povera Rosetta” rivive in “Folisca”: voce agli ultimi
 

Alcune storie fanno più Storia delle altre. Alcune fragilità sono più deboli. Alcune violenze fanno meno rumore, vengono insabbiate, si perdono nell’abisso del potere autoritario, svaniscono nel ventre molle del pregiudizio. In “Folisca” (Arkadia, 2022) Miriam D’Ambrosio recupera alla memoria collettiva la vicenda di Rosetta (Elvira Rosa Ottorina) Andrezzi, giovanissima aspirante cantante nella Milano del 1913, nona figlia di una prostituta anaffettiva, prostituta anche lei per necessità prima di conoscere l’amore e di scoprire il suo talento. Era stato già Leonardo Sciascia, in “Storia della povera Rosetta”, a ricostruire l’episodio dell’omicidio della donna a soli 19 anni in piazza della Vetra a Milano per mano degli agenti della questura: un’opera che è quasi un manuale non solo sulla lotta al femminicidio e alla violenza di genere, ma anche sui metodi della violenza di Stato. Come epigrafe D’Ambrosio sceglie un verso di Alda Merini: “E mi giaccio scoperta e solitaria come una rosa sfatta nel terreno”. Scoperta e solitaria è Rosetta. La vediamo ancora bambina, “ceduta” dalla madre al Cavaliere, l’uomo facoltoso che è a tutti gli effetti il suo primo “cliente”: “Mi chiamava ‘Sogno mio bello’. Ma i sogni belli non sono. Almeno i miei, dove c’era spesso il buio”. In casa del Cavaliere si avvicina al pianoforte e prende lezioni di canto da Gina De Chamery, “una bella voce milanese, di sicuro successo, innamorata di Napoli, una città di cui mi parlò tanto e che fece sua”. Grazie a Gina, Rosetta conosce le atmosfere da cafè chantant, le luci soffuse, il Teatro San Martino di piazza Beccaria, la Scala. Si accorge che l’elegante pubblico maschile che affolla le platee e le gallerie “era lo stesso frequentatore di luoghi diversi con medesimi abiti e differenti intenzioni”. Il mondo di Rosetta è popolato di maitresse pentite che vendono fiori, generose prostitute d’alto bordo come Leda, che fino alla fine della sua breve vita le resterà accanto come una vera madre, commercianti innamorati come Guido in via Torino, fratelli di sangue come Arturo, fratelli-amici come Attilio Orlandi, il Buterìn, borseggiatore grande e grosso, di cuore gentile. Un mondo che sfiora, traboccante di sogni, la ligèra, la leggendaria mala milanese. Un mondo di ultimi a cui D’Ambrosio restituisce voce e dignità, nonché il compito di raccontare Rosetta ciascuno dal suo punto di vista, come in un prisma. È in questo universo che si muove prepotente il Musti, questorino meridionale la cui famiglia appartiene a un clan dominante nel territorio di provenienza. Il primo incontro è un urto per strada soltanto apparentemente causale, una stretta sul braccio di Rosetta, occhi cupi che la minacciano e la deridono: “La signorina vuole parlare da signora e non ci riesce”. “Si accorse della mia paura e gli piacque”, sono le parole con cui D’Ambrosio traduce i pensieri di Rosetta. Questo piacere nel generare paura, connotazione sempreverde dei despoti, sarà l’unico sentimento di cui il Musti si rivelerà capace, fino alla tragedia finale. Il racconto da qui in avanti si fa binario: da un lato c’è Rosetta che prova a lasciarsi alle spalle il passato e segue il profumo della sua ambizione, assaporando la magìa della Belle Époque  e diventando nota nei teatri come Rosetta de Woltery; dall’altro lato c’è Musti che la segue come un’ombra, ricacciandola nei vecchi ruoli, nelle vecchie gabbie. È così, attraverso gli ultimi, che D’Ambrosio tratteggia l’immaturità della democrazia italiana, alla vigilia della Grande Guerra: l’energia maieutica dell’arte e del sogno – incarnata al meglio dal personaggio di Gino, con cui finalmente Rosetta scopre l’amore come comunanza di anime, come “tenerezza” che “salva, non calpesta” – contro l’anelito distruttivo del potere cieco e del possesso. La potenza della creazione artistica contro la cappa mortifera dell’autorità. Gino chiama Rosetta “Folisca”: “Significa ‘scintilla’, ed è quello che sei per me. Scintilla nascosta, brace sotto la cenere, luce improvvisa, fuoco rosso che continua a divorare il grigio della legna arsa, capace di scaldare ancora e riaccendersi”. La Storia entra nelle storie di Rosetta, Musti, Gino, Leda, Arturo, Attilio e Vanda attraverso la figura di un direttore di un importante quotidiano milanese, che Rosetta descrive in questo passaggio: “Era un uomo che pareva andare di fretta (…). Fu il suo sguardo a colpirmi, fatto di fuoco e di terra: aveva occhi rotondi e scuri che mi ricordarono quelli di un falco pellegrino”. Si presenta con un baciamano a fior di labbra: “Mussolini Benito, onorato”. Proprio lui, dopo la morte violenta ed eclatante della “povera Rosetta”, come la ha resa immortale una canzone “cantata nelle osterie, nelle cantine, durante gli intermezzi nei teatri di varietà”, si preoccupa di fare il suo mestiere di giornalista e di andare in cerca della verità sulle pagine dell’”Avanti!”. Una verità che, come scrive lui stesso sulle colonne del quotidiano, “agli ultimi, quasi mai, rende giustizia”. Il fascismo è ancora lontano. Ma di lì a poco il socialista Mussolini abbandonerà giornale e partito “per creare una realtà inattesa e lunga, capace di condizionare i destini di un popolo intero”. Lo dice Rosetta, dopo la sua morte, immaginando come sarebbe stata la sua vita se non fosse stata falciata. Scintilla tra la “moltitudine di invisibili scintille”. Scoperte, solitarie, rose sfatte sul terreno. Da Rosetta a Stefano Cucchi. Folische. Quante ne contiamo ancora oggi?

 

Manuela Perrone

 

Il link all’articolo su Il Sole 24 Ore: https://bit.ly/3fRO4kP


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