“Floridiana” sul blog di Bartolomeo Di Monaco
LETTERATURA: Emanuele Pettener: “Floridiana”
Una voce italiana che viene dall’America, e più precisamente dalla Florida, dove l’autore, nato a Mestre, insegna presso la Florida Atlantic University. Ha al suo attivo altri romanzi: “È sabato. Mi hai lasciato e sono bellissimo”, del 2009, “Proust per bagnanti”, del 2013 e “Arancio” del 2014. Tra i suoi altri titoli, un saggio su John Fante: “Nel nome del padre del figlio e dell’umorismo. I romanzi di John Fante”, uscito nel 2010. “Floridiana”, il romanzo di cui ci occuperemo, è stato edito nel maggio 2021 da Arkadia Editore, nella collana di narrativa curata da Marino Magliani, Luigi Preziosi e Paolo Ciampi. Vediamo di che si tratta. Si nota subito la scrittura, tra gioco e avvolgenti cariche di ironia. Procede a macchie di colori, come se un pennello si divertisse a mettere ogni tanto il colore, ed anche più colori, alle parole. Tom (Thomas Giannini, di professione dentista) è un uomo di settantuno anni (è lui che racconta), sposato con April Keane, insegnante universitaria, di qualche anno più giovane e ancora una bella donna. Si vuole e non si vuole separare da lei. Il giorno prima le ha detto che vuole lasciarla poiché lei non lo ama. Ma non è sicuro sul da farsi. La bellezza della donna lo rende incerto, insicuro. Con l’amico Nick prova a fare l’esperienza di single; torna a sentirsi libero, e anche un po’ più giovane. Illusione. I due sanno solo attirare donne attempate. Si trovano in un locale notturno: “In quel momento è accaduto l’imprevedibile. Due vecchiette megere si sono avvicinate lasciando risplendere le dentiere. Avranno avuto la nostra età ma tentavano disperatamente di togliersi quarant’anni: un po’ velleitario. Imparruccate, l’una color biondo paglia, l’altra un inquietante rosso bizantino, si erano pittate la faccia di giallo canarino e bordeaux, e non smettevano di sorridere”. Anche l’autore sorride e si diverte e si capisce che vorrebbe divertire anche noi, mostrandoci i paradossi dell’esistenza, in cui i sentimenti spesso implodono in una realtà che può renderci ridicoli. La vecchiaia, la stessa esperienza della vita, tendono a produrre di questi scherzi. Ci sentiamo sicuri e siamo invece fragili. Vogliamo divertirci, richiamare la tramontata gioventù e si diventa grotteschi. Non riusciamo a trovare una direzione. L’autore guarda Tom (ed anche noi) muoversi nell’impaccio dei suoi anni, ma non gli tende la mano; deve fare tutto da solo. L’insicurezza dell’agire e l’inquietudine, alimentate dallo scorrere degli anni, l’insoddisfazione per quanto e come il tempo ci abbia segnati sono alla base del racconto. Il gioco delle parti che si sta costruendo è come una torre di Babele in cui è reso difficile intendersi. Un barlume di luce e poi di nuovo lo smarrimento, il vuoto e la senescenza. E “nessuno che ti prenda sul serio”. Lo stile brillante con cui la storia è narrata in realtà nasconde la tragedia sottostante della vecchiaia che scompagina e a poco a poco annichilisce la nostra residua voglia di vivere. Lo smarrimento diventa la bussola incerta e inquieta di ciò che stiamo diventando. La gioventù ci ha fatto un brutto scherzo, ci ha illusi, ci ha nascosto la verità e Tom sta misurando la distanza che dalle profondità e bellezze della vita lo sta portando ad arenarsi sulla sabbia, nient’altro che per morire. Le illusioni della gioventù, le cose che abbiamo fatto (Tom ha cessato di fare il dentista a cinquantanove anni per dedicarsi alla scrittura) ci appaiono nella loro inconsistenza. La vecchiaia si prende il suo spazio e disgrega il passato fino a rischiare di trasformarlo nel nulla. L’autore non vuol farci sentire il peso di questo annullamento, ha impegnato a questo scopo la sua scrittura, ma il lettore lo avverte e ogni tanto gli prende lo sgomento. Si avvede che anche i felici ricordi di Tom sono intrisi di caducità e di vuoto. Transeunti come essi sono, hanno il pallore della morte. A proposito della morte di Tita, la loro domestica boliviana, si legge: “Quando, uno dopo l’altro, April e io perdemmo i nostri genitori, ci furono lacrime, ci fu dolore come una fucilata al petto, ma non da tutti e per tutti in modo uguale, e comunque la nostra famiglia continuò ad avvertire se stessa come intera: quando invece cinque anni fa, all’età di novantasette anni, Tita morì, piangemmo tutti e sei, con identica disperazione, ed allora avvertimmo che nel nostro quadretto idilliaco s’era creato un buco, un vuoto”. La vecchiaia che cerca di ripercorrere e ritrovare la giovinezza è un lacerante processo di dolore, e Tom non troverà altro che questo dolore ogni volta che cercherà di far tornare il passato. La scrittura di Pettener s’imbeve a poco a poco di un sottofondo di tristezza e di impotenza. Ecco il ricordo di quando April gli annunciò di essere incinta: “Da quel momento in poi fu come se una nuova leggerezza la facesse volare a un centimetro da terra, più si ingrossava è più svolazzava, era tonda e rosa e serena, un grande pallone leggero e colorato che rimbalza e danza fra i boschi e nel cielo azzurro”. È un’immagine che ci ritorna sotto la forma di un addio, di una memoria impotente che sta per consegnarsi al nulla. Pettener ci sta mostrando la realtà dell’esistenza umana, con i suoi camuffamenti, i suoi inganni, le sue illusioni. La felicità con cui si cerca di ricollocare oggi i momenti del passato è effimera e bugiarda. E il vecchio che ha intrapreso l’ultimo tratto della vita cerca di afferrarla, ma essa gli si rivela quale è sempre stata, ossessiva e spietata mentitrice. Il viaggio della vita è, e sarà sempre, il viaggio verso la morte. Scrive l’autore: “Era il periodo più felice della mia vita, e qui sta il problema: la felicità è insaziabile. La felicità non si accontenta mai. Anziché contemplarla in silenzio, sentivo il bisogno di urlarla, di cavalcarla, di amplificarla”. Ecco, dunque, che troppo tardi ci accorgiamo dell’inganno. Andare nella direzione del ricordo, procura solo disperazione. Pettener ci mette di fronte ad un terribile interrogativo: È possibile riuscire a vivere senza il ricordo? Il ricordo è lamentazione, non felicità. Leggendo le pagine che ripercorrono la vita di Tom, la sensazione di una perdita irreversibile è assai marcata. Ogni momento di felicità ha in sé l’aspro sapore di una insussistenza immolata al nulla: “Mi riusciva con una certa continuità qualcosa che prima e dopo mi è riuscito pochissime volte: ‘vivere nel presente’. Gustandolo, palpandolo: la vita mi scorreva nelle vene, la sentivo vibrare in ogni momento, come quando la ritroviamo dopo aver temuto d’averla persa, come quando arriva una nuova stagione, come quando ci si innamora. Come quando la vita sembra avere un senso, un senso in sé, misterioso ma indubitabilmente vero, come misteriosa ma indubitabilmente vera è la mancanza di senso che avvertiamo altre volte. Tutto mi allietava: preparare la pappa per la più piccola, cambiare una lampadina, riverniciare le biciclette. Ogni mattina il cielo si spalancava promettendo solo azzurro e bontà: facevo benzina annusandola quasi fosse ambrosia, salutavo le vecchiette, scherzavo amabilmente con tutti e a tutti volevo bene, fra me e la vita c’erano accordo idilliaco, la vita era giusta e sana e solida”. Si avverte quasi un rimprovero, il pentimento di essere vissuto. I tratti di gioia, di soddisfazione e di esultanza che compaiono sono lezioni amare, una specie di avvertimento, di messa in guardia. Gli stessi personaggi evocati, si veda Juan, bello e pure scrittore valente al contrario di Tom, si muovono già come ectoplasmi, immateriali. Il passato si aggruma, si scinde dalla singolarità per diventare massa e nebbia. Ciò che la memoria tocca non può tornare a vivere, bensì ammonire e diventare premonizione di morte. La scrittura graffia la mente; spinge verso di essa. Diviene via via sempre più beffarda, irridente: “Io a Juan piacevo – c’era qualcuno che non gli piaceva, del resto? A giudicare dal suo atteggiamento gli piacevano tutti, almeno in classe, il che è come dire che non gli piaceva nessuno, chissà. Difficile dire cosa si nasconde dietro una dentatura perfetta. Il suo pizzetto era imprevedibile, i suoi baffetti misteriosi, e in fondo ai suoi occhi così scuri e umidi era impossibile capire cosa celasse. Sapeva d’esser bravo, oh sì, questo è impossibile che non lo sapesse: non organizzi trame così audaci, sinfonie così intricate, una batteria di tigri e pantere così roboante se non hai una sicurezza totale, un dominio fermo sulle bestie e sulla materia, non affronti enormi tori bramosi solo di farti a pezzi se non hai un orgoglio di te folgorante come un tramonto a Pamplona: olé!”. Chissà perché ho pensato ad un Juan simile al ritratto di Dorian Gray e il narratore un Dorian Gray che vi si specchia e scopre la morte. Ma non solo lui, come se tutte le pagine del romanzo e tutti i personaggi fossero l’espressione del ritratto diventato un caleidoscopio di anime. Non è un’opera facile. Il lettore è continuamente chiamato ad una sfida, lanciatagli a mo’ di sberleffo e con tanta ironia: “Keelie mi sembrava l’unica relativamente normale del gruppo: aveva un buon sorriso per tutti che forse nascondeva un certo disinteresse per tutti, aveva un’arancia che si sbucciava durante la pausa della lezione, aveva un fidanzato un po’ geloso, aveva due gatti con cui giocava sul balcone soleggiato del suo minuscolo appartamento a Delray Beach. Lavorava in biblioteca, faceva collezione di mappe dublinesi, ascoltava musica celtica, guardava The Weather Channel e sognava di fare il Cammino di Compostela col fidanzato un po’ geloso”. Qui tocca ad un’altra prendersi lo sberleffo: “Certo, la Gustafsson cambiava atteggiamento al pub. Si toglieva gli abiti da prima della classe, da implacabile tutrice dei valori dell’arte, la direttrice del giornalino letterario dell’università. Sorrideva, fumava – allora si poteva fumare – e ogni tanto si alzava per andare a telefonare al telefono pubblico situato accanto alle toilette. Credo volesse far sapere che anche lei aveva un fidanzato, ma sono pressoché certo fosse sola come un cane. Era fastidiosa, molesta, e grassa. Non ancora grassissima, ma la strada era quella: troppo burro di noccioline, troppa cioccolata. La carne bianca e lentigginosa – era una rossa naturale, portava i capelli a caschetto – le riempiva eccessivamente fianchi e seni, e Rubens l’avrebbe già guardata con occhi di riguardo”. Sono personaggi, che una volta descritti e percepiti, paiono fermarsi per sempre come i manichini di Madame Tussauds. Si portano dentro anche l’elettricità del pensiero, poiché del loro gioco beffardo si accorge anche il narratore: “Era un dio sadico quello che mi riempiva di sogni e di talento e sistematicamente mi impediva di realizzarli, era un dio che si prendeva gioco di me”. La moglie April, alla quale Tom ritorna spesso col ricordo, fissando, attraverso le immagini della famiglia (ha allevato quattro figli) le asperità del rapporto di coppia, è la figura che nutre di sé tutto il percorso del romanzo. Nel bene e nel male, è la bussola per influsso della quale esso bolle e fermenta: “Lasciarci andare, forse, sarebbe stato facile. Senza più energie, troppo desolati per ricordarci di ciò che ci aveva legato, saremmo andati alla deriva, allontanandoci”. Soffice e leggero, pressoché impalpabile, il trascorrere degli anni di April nel ricordo di Tom. Virginia Woolf, Edith Wharton, Henry James, rappresentano forse alcuni ancoraggi ai quali si affida la scrittura di Pettener. Le azioni non si presentano mai nella loro nudità ma nella fascinazione dei loro significati. La trama è intrisa di quella materia prima che si chiama anima. Riflessione e sentimento si congiungono e si riconoscono nell’atmosfera impalpabile della rivelazione. Il contrasto di coppia, la riconciliazione che si avverte sempre vicina, ed ora ci sembra possibile e ora ci sembra improbabile, sono come bolle d’aria che volano leggere, delicate, facili a disintegrarsi al primo segno di contraddizione. Un equilibrio precario; non è altro che questo, la vita. Tom non se ne rende ancora conto. La conoscenza, l’epifania, la rivelazione sono vicine, ma ancora l’attanaglia la confusione dell’esperienza che sta attraversando. I figli gli telefonano affinché ritorni a casa, faccia pace con April. Sono tanti anni che hanno vissuto insieme; possibile questa improvvisa lacerazione, ora che sono entrati nell’ultimo tempo della loro vita? Il diniego insistente, ma dubitoso, di Tom non è altro che la manifestazione di una lacerazione con la quale la vita esprime la sua indifferenza e la sua neutralità: “April per me resta uno splendido mistero, mai del tutto conoscibile, a tal punto da chiedermi talora se non mi sono completamente sbagliato su di lei, se il mio amore non sia l’effetto di un’illusione ottica”; “Il mondo aveva deciso, a un certo punto, che April e io fossimo la coppia ideale – l’emblema di un amore puro che resiste alle intemperie, al tempo, alla vita. Avevamo tutto: quattro bellissimi figli, una bellissima casa, due bellissime carriere, eravamo colti, innamorati, bellissimi – insopportabili. Non so come ho fatto a sopportare questo quadretto per tanto tempo, francamente. Forse faceva tremendamente comodo credere che fosse così, e godere dell’ammirazione altrui, e soprattutto dell’invidia. Tutti desideriamo essere invidiati, quasi tutto quel che facciamo lo facciamo per suscitare invidia”. La scrittura è intrisa di tanta amarezza. La storia raccontata, in realtà, non ha sorriso. Il ricordo si sterilizza nel rimpianto di ciò che non potrà mai essere. Le schermaglie tra i due, seppure in un tentativo di riappacificazione – condotte dall’autore con una invidiabile briosità – celano una riconciliazione sempre più invertebrata rispetto al passato che si è interrotto. Nulla può essere mai più come prima. L’insoddisfazione e il fastidio, una volta percepiti, si radicano in quella che fu un’apparente felicità e diventano menzogna, gioco, inconsistenza, irrecuperabilità. Vuoto e dolore: “Son tornato a vivere a casa. Ci sfioravamo, scambiavamo qualche frase smunta, non facevamo l’amore. Facevamo colazione assieme, come da una vita intera, sbocconcellando pane tostato e uova insipide e fingendo di leggere i rispettivi giornali, almeno io fingevo, lei probabilmente leggeva davvero, scostando una briciola dalle labbra, lo sguardo dietro gli occhiali tutto preso dalla notizia di un drogato che rubava cuccioli di razza per riprenderseli e guadagnarsi il crack quotidiano, mentre il nostro matrimonio crollava nell’indifferenza e nella rassegnazione, e io morivo disperato, disgustato, solo e senza un’oncia di crack, nella grazia tropicale del nostro patio, nello splendore immacolato del mattino, i raggi di sole tra le foglie, i piccoli uccellini dai colori vivaci a canticchiare ouverture rossiniane, l’acqua placida del canale. Poi lei si alzava, si faceva la doccia, si truccava, si vestiva, andava a scuola, e non la vedevo più fino a sera, quando scambiavamo frasi svogliate, quasi imbarazzate, evitavamo se possibile di cenare assieme e di andare a letto alla stessa ora, lei subito ad immergersi in compiti da correggere e un libro, io un paio d’ore più tardi, dopo una nauseante sessione di reality-show, mezzi film comici notturni che facevano ridere tutti tranne me”. È l’incomunicabilità che troviamo in Antonioni, pressoché irrimediabile. Ma è davvero così? Il lettore ormai è preso dalla curiosità di sapere come andrà a finire. Durante la storia ha attraversato i gironi dell’inferno in cui Tom è precipitato, in una discesa che è parsa inarrestabile. Si potrà fermare? In questo momento nessuno lo sa. L’esperienza di Tom è del tutto personale, e non ha una meta precisa. Il cammino è tortuoso, s’incontrano sgomento e paura. La speranza è tiepida e intimidita. La scrittura, costantemente ironica e carica di humor, sta creando una suspence che non ci attendevamo. La storia di coppia si è fatta intrigante. Le parole, se messe in fila sin dal principio, cominciano a delineare un mosaico che è ancora senza volti, ma li avrà. Una composizione che ispirerà stabilità e sicurezza? In una parola: la felicità, sia pure ingannevole, alla quale la coppia aspira? L’autore, nei momenti in cui stempera la sua ironia, ci rivela, e non poche volte, una invidiabile qualità di ritrattista. Questa è Henriette, una donna morta a sessant’anni, e che per molti anni della sua vita, ancora giovane, appariva come una sessantenne: “Ora, come definire Henriette? Una brava donna. Ma l’enfasi cadeva così pesantemente sull’aggettivo, da negligere il sostantivo. Della donna, intendo, della sua femminilità, si tendeva a scordarsi – benché non fosse brutta, in carne ma assolutamente non brutta, dolce nei lineamenti, dolcissima nel sorridere, pura nella luce grigia degli occhi che guardavano il mondo con serenità dietro piccoli occhiali d’oro. No, non più donna, semmai lo fosse mai stata: una buona persona. Età indefinibile, età da signora, a tal punto da chiedersi se fosse mai stata una signorina, una giovinetta, una bambina. Eravamo coetanei, ci eravamo conosciuti ancora giovani, eppure già allora mi sembrava molto più grande di me, e a sessant’anni mi sembrava che ne avesse sempre avuti sessanta, che quella fosse la sua età perfetta, benché non si potesse nemmeno dire che ne dimostrava sessanta, non dimostrava nulla, guardavo le fotografie di quando ne aveva trenta ed era un po’ diversa ma mica tanto, a trent’anni era già una giovane sessantenne, come a sessanta una sessantenne di aspetto giovanile: qualsiasi età avesse, non le si poteva dare un’età, il tempo non si applicava”. Si noti la facilità espressiva, la scorrevolezza con cui il ritratto è disegnato. Anche la descrizione di Venezia, che il lettore gusterà con molto piacere, è rivelatrice della scrittura di Pettener, la quale si nutre di giocosità, di ironia, ma ha pure un sottofondo malinconico. Sono pagine veneziane dense di movimento e di colore, infatti, e di allegria (riversata in dialoghi accattivanti), la scrittura è scintillante, ma noi sappiamo che Tom si trova lì, a Venezia in gita con altri, e non con April, e il suo rapporto con lei è ancora tentennante e doloroso. Tom dice a se stesso: “Ma è davvero difficile – se non impossibile – capire perché abbiamo amato coloro che abbiamo amato. Coloro che non amiamo più. L’amore passato, l’amore finito, è un mistero assoluto: e più sappiamo di aver sofferto come cani per quella persona – l’abbiamo vergato a lettere di sangue sul nostro diario, i nostri amici sono testimoni delle nostre lacrime e della nostra follia – più brancoliamo nel buio: perché? Com’è possibile?”. E più avanti: “mi manca da morire April, maledetto vino, maledetta Venezia che dorme sui miei dolori, incurante delle mie spine, mi manca come una voragine nello stomaco”. Questa parte dedicata a Venezia è la più rivelatrice dell’humor trepidante e velato di tristezza che accompagna la scrittura (sempre piacevolmente sicura). L’autore con essa traccia un percorso che si è obbligati a seguire fino in fondo, poiché è esso che ci porterà alla conoscenza di Tom, fino addentro alle sue inquietudini e alle sue titubanze. Cos’è “Floridiana” se non un rapporto d’amore trinciato dagli anni e che urla la sua voglia di non morire?
Bartolomeo Di Monaco
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