“Floridiana” su Giuditta legge
Lo Scaffale di Andrea: “Floridiana”
DI MATURITÀ E VOCAZIONI LETTERARIE
“Ripeness is all”, “la maturità è tutto” dice il figlio Edgar al padre, il conte di Gloucester, nell’atto V scena II di “Re Lear” di Shakespeare. Lo dice al padre che si è abbandonato a terra desiderando morire. Più precisamente: “Che c’è, ancora cattivi pensieri? Gli uomini devono sopportare/la loro uscita dal mondo come la loro venuta;/ La maturità è tutto. Andiamo”.
La maturità è tutto. Una frase spesso utilizzata da altri scrittori, non ultimo Cesare Pavese che la mise in esergo a “La luna e i falò”.
Ma cosa vuol dire che la maturità è tutto? Vuol dire, forse, che maturare è sopportare il bene e il male della vita? Vuol dire che chi non considera fondamentale la maturità non accetta l’inevitabile male di vivere? Eppure il fronte non è così compatto come parrebbe essere: l’eterodosso psicoanalista junghiano James Hillman scrisse da qualche parte che quando sentiva parlare di maturazione dell’uomo gli venivano in mente le mele più che la complessità dell’essere umano. Ironizzava e cercava di scardinare luoghi comuni perché aveva ben presente quanto fossero importanti i processi di crescita che durano tutta la vita.
Libri, riflessioni che mi sono tornati alla mente leggendo l’originale e bellissimo romanzo di Emanuele Pettener “Floridiana”, pubblicato da Arkadia (2021) nella collana “Senza Rotta”, curata da Marino Magliani, Luigi Preziosi, Paolo Ciampi.
Come si declina la maturità in questo originale romanzo? Qualcuno matura? E, se sì, chi matura tra i personaggi che animano le pagine del libro?
Prima di addentrarmi nell’analisi del romanzo, due parole sul suo autore.
Emanuele Pettener è nato a Mestre. Insegna Lingua e Letteratura italiana ed è “writer in residence” alla Florida Atlantic University (Boca Raton, Florida) dove nel 2004 ha conseguito un Ph.D in Comparative Studies. Ha scritto articoli e racconti apparsi su riviste statunitensi e italiane. Ha scritto i romanzi “Mi hai lasciato e sono bellissimo” (Corbo, 2009); “Proust per bagnanti” (Meligrano, 2013); “Arancio” (Meligrano, 2014). Ha pubblicato il saggio “Nel nome del padre del figlio e dell’umorismo. I romanzi di John Fante” (Cesati, 2000). In inglese ha pubblicato la raccolta di racconti brevi, tradotti da Thomas de Angelis, “A season in Florida” (Bordighera Press, 2014). Ha curato il cinquantesimo numero della rivista “Nuova Prosa” (2009).
E ora la trama di “Floridiana” in breve: il romanzo è ambientato, per gran parte a Boca Raton, in Florida, l’ultima parte a Venezia. Tom, il narratore, – un dentista in pensione – lascia la moglie che ama molto, dopo molti anni di matrimonio, perché ha l’impressione di non essere riamato. Si rifugia in un motel e, da lì, racconta a noi lettori la storia della sua vita fino al momento della rottura con la moglie. Ci narra delle due grandi passioni che lo abitano: l’amore per la famiglia e quello, altrettanto intenso, per la scrittura e la letteratura, con il dubbio che lo rode e l’interrogativo che lo assilla se la sua sia vera, autentica vocazione letteraria. Convinto che la moglie, April, lo tradisca con Juan, suo ex compagno di studi in un corso di Creative Writing, e ora ginecologo di April, decide di trascorrere una vacanza-studio a Venezia con tre amici e un gruppo di studenti tra cui una ragazza argentina, Laura, con la quale intreccerà un profondo rapporto di amicizia. E, dunque, il romanzo continua e termina con il racconto della vacanza a Venezia.
Non mi soffermerò ulteriormente sulla trama ma sui registri narrativi, sulle tematiche, sulla scrittura di Pettener. Mi soffermerò, in particolare, sulla figura di Tom anche se tutti gli altri personaggi meriterebbero analisi approfondite, ma in Tom si concentrano le tematiche importanti di “Floridiana”.
Riprendo il discorso sulla maturità. È un rapporto maturo quello che intrattengono April e Tom? E qual è il rapporto che Tom intrattiene con i figli ormai adulti? Si prende cura di loro quando è necessario o sono loro a prendersi cura di lui in un ribaltamento dei ruoli? E, ancora, che rapporto intrattiene con l’amico Nick e il presunto rivale in amore Juan?
Fili che si dipanano, si ingarbugliano, si dipanano ancora mentre il romanzo prosegue. Fili che forse imprigionano segreti di famiglia, non detti, spazi di silenzio. Rapporti che sono descritti da Pettener con un tocco magico, un tocco pieno di leggerezza e di profondità allo stesso tempo.
Ci si chiede: “Tom ha un io infantile o sono gli altri che lo infantilizzano?” Viene in mente Eric Berne, lo psicoanalista che, ad un certo punto della sua vita, inventò l’Analisi Transazionale. Viene in mente uno dei suoi libri più famosi: “A che gioco giochiamo” (Bompiani, 1987) un testo in cui Berne descrive il gioco delle relazioni interpersonali in cui sono all’opera l’Io bambino, l’Io genitore, l’Io adulto. In “Floridiana” c’è davvero un caleidoscopico gioco in cui emergono, di volta in volta, l’Io bambino, quello genitore, quello adulto, quegli Io che formano, secondo Berne, la struttura complessa della nostra personalità. L’emergere degli Io diversi sono quelli che fanno slittare il romanzo dal registro comico, a quello drammatico, a quello tragico. Anche se su tutte le vicende aleggia sempre uno stato di malinconia, una nostalgia per qualcosa che, a volte, sembra inafferrabile. Ed è anche per questo motivo che i personaggi sono tutti tridimensionali intendendo con questo che ci sembra di averli lì, davanti a noi, in carne e ossa. Limitiamoci a Tom. Si legge e si passa dall’empatia, alla rabbia per alcune delle scelte che Tom fa. Lo si vorrebbe consigliare, sconsigliare, consolare a seconda delle situazioni in cui si trova. Questo è il frutto della tridimensionalità del personaggio e vale anche per gli altri.
Tutti, poi, sono inseriti in paesaggi superbamente descritti. Un solo esempio: è da tre giorni che Tom è senza April. Decide di andare in spiaggia a Red Reef e così la descrive:
“La luce del sole barbagliava sul mare. Il sole sull’acqua mi ricorda sempre la mia infanzia. È strano perché non ho avuto un’infanzia sul mare. Forse è l’infanzia di qualcun altro. Il blu attraversato dai flash del sole tropicale, il cielo così luminosamente e intensamente azzurro solcato da nuvoloni bianchi e biancastri, simili a enormi vacche allegre e giocose. Verso l’orizzonte l’azzurro impallidisce, sembra si scusi: una nave galleggia sulla linea di confine tra cielo e mare. Alle mie spalle, la giungla di sea grapes, dalle foglie venate di rosso, in mezzo ai quali spuntano palme ingiallite dal sole (il mare verde delle sea grapes è attraversabile grazie a una passerella di legno sopraelevata, ove è gradevole passeggiare osservando, nell’intrico di piante, in alto la spiaggia e la distesa possente dell’oceano, in basso la vita che si popola alle radici, scoiattoli stupiti e lucertole color smeraldo e gli enormi banana spider che filano le proprie mirabili tele fra i rami e i bordi della passerella)” (Pag. 119-20)
Tom è un uomo portato all’introspezione e si interroga sovente sulle sue relazioni, sulla sua, reale o presunta, vocazione letteraria, su che senso dare alla vita in generale e la sua in particolare. Quando Tom e April sono sul punto di separarsi, proprio all’inizio del romanzo, e Tom descrive la mattina in cui tutto è cominciato, la sua descrizione non si limita a una cronaca:
“Ce ne stavamo a far colazione in veranda, ed era una mattina idilliaca, oh che mattina! Una di quelle mattine che ti deliziano e ti tormentano, e ti tormentano per lo stesso motivo per cui ti deliziano. Sono così piene di vita che avverti nella carne il rimorso di non aver più tempo a disposizione – per creare i capolavori che t’ispirano, per impossessarsi della gioia completa della vita che ti rendono palese, per viaggiare, amare, bruciare, o semplicemente per goderle in ogni fragrante attimo di chiarezza e blu. Ma, se ci penso, anche a vent’anni sentivo il rimorso di quelle mattine, forse pure a dieci, sembravano sempre dirmi che non stavo vivendo abbastanza, mi facevano sentire la felicità sulla pelle e mi presentavano il conto: ecco la felicità, ma tanto non saprai mai possederla del tutto” (Pag. 17).
Il fatto è che la felicità è sempre una felicità di cristallo per noi umani gettati in un mondo precario, caduco. Tom sembra saperlo bene questo.
In quella mattina tutto precipita perché Tom ha l’impressione che April non abbia ascoltato con sufficiente attenzione, o che proprio non abbia ascoltato, l’ultimo racconto che lui ha scritto e che le ha letto: “Le stavo leggendo il mio ultimo racconto e, a metà della scena cruciale, lei mi domanda ex abrupto: ‘Ti sei ricordato i fagiolini?’” (Pag. 18).
È permalosità o è una ferita narcisistica? E, se è una ferita narcisistica, quale ruolo ha la scrittura nella vita di Tom? Quale ruolo ha la scrittura nella vita? La vocazione letteraria – quella vocazione letteraria che Proust insegue nel corso di tutta la Recherche e che trova dopo intoppi, scacchi, dilazioni, digressioni nell’ultimo volume, quello del Tempo Ritrovato – è così importante nell’economia dell’esistenza di Tom?
Quando Tom non si sente valorizzato, quando non vede riconosciuta l’importanza dei suoi tentativi letterari scrive:
“Anche qualora l’effetto di questo tentativo sia solo un balbettio, questo balbettio è più vero di tutte le convenzioni, gli alibi, le maschere morali, le imitazioni volute o meno che vi si affastellano attorno, quella che chiamiamo vita ed è solo esistenza, pacchiano esibirsi sul palcoscenico di un mondo del quale non ci consideriamo mai all’altezza – ecco, scrivere è il tentativo in extremis di non dar più così importanza al mondo, a quello che il mondo pretende da noi, e squarciare una a una le maschere fasulle che ci siamo appiccicati per accontentarlo, blandirlo, servirlo – e cercare invece quel nocciolo profondissimo di verità che sta dietro tutto e dentro di noi, quel diamante purissimo, quel balbettio” (Pag. 26).
Ma, in un’altra parte del romanzo, dopo aver parlato con l’amico Nick, Tom afferma:
“Forse aveva ragione Nick. La scrittura non significa smettere di esibirsi sul palcoscenico per lusingare il mondo, ma è l’ultimo disperato tentativo di farlo. Non è la noce del mio io, non è l’estremo tentativo di balbettare la verità su me stesso, il piccolo diamante puro avvolto in mille sfoglie di menzogne, celato da mille maschere – ma è l’ultima menzogna, l’ultima maschera, tolta la quale non rimane nulla, solo l’aria di cui siam composti” (Pag. 91)
A proposito di vocazione letteraria e di essere pubblicati c’è una pagina molto bella in cui potranno riconoscersi molti di coloro che rammentano cosa hanno provato la prima volta che sono stati pubblicati: la gioia infantile, il senso di pienezza anche se la sua durata è quella de l’espace d’un matin.
Una piccola rivista ha accettato di pubblicare il racconto di Tom “Il diavolo a colazione”. Ecco la sua reazione:
“La felicità che provai quel 30 novembre 1989 fu una felicità totale, immune da considerazioni sul tempo e sulla morte e sul senso della vita, come uscire fuori di sé e assaggiare il paradiso da vivi” (Pag. 212).
Poi la reazione si trasforma forse in qualcosa di ancora più autentico, forse in qualcosa di infantile, forse in qualcosa che contiene sia l’autentico sia l’infantile:
“Mi si sciolse l’anima: piansi e piansi come un bambino, piansi di gioia e di gratitudine, e arrivai in studio beato, in ritardo clamoroso, implorando perdono con volto angelico ai miei pazienti sbigottiti. Adducendo un’emergenza privata e altre corbellerie” (Pag. 213)
Un momento unico che si incrinerà a causa del rapporto complicato di Tom con April che, comunque, l’aiuterà nelle altre pubblicazioni:
“Altri racconti vennero accettati, ma le emozioni che ricavai furono sempre lontane da quell’estasi del 30 novembre 1989: vaghe impressioni di contentezza o di soddisfazione sempre smussate da sentimenti autoironici (quando per esempio mi arrivò un assegno di venticinque dollari) fino all’indifferenza nuda e cruda. Una volta raggiunto un numero consistente di racconti, cominciai a contattare agenti ed editori indipendenti per proporre la raccolta, e la litania dei rifiuti ricominciò. Era deprimente, umiliante, finché un giorno April non se ne venne fuori con questo suo amico editore di una piccola press legata a un college del Minnesota” (Pag. 214-15).
Come dicevo più sopra c’è sempre un velo di insoddisfazione in Tom, una malinconia che lo abita, la consapevolezza della nostra caducità, come se si domandasse cosa rimane, alla fine, di tutto quello che noi facciamo; c’è sempre una pesante ombra di gelosia che lo assilla. Gelosia non solo per Juan, ma anche per le pubblicazioni della moglie, influenzate dai critici e filosofi francesi à la Derrida. Quale significato avrà per Tom la vacanza-studio a Venezia, quella Venezia così importante per il ritrovamento della vocazione letteraria in Proust? Come andrà a finire? Come andrà a finire la storia con la ragazza argentina Laura che sembra molto apprezzare la scrittura di Tom, tanto da definirla una scrittura visuale E ancora, in finale, quali Io saranno sollecitati a emergere? L’Io bambino, quello genitore, quello adulto? Si sveleranno segreti? Al lettore scoprirlo Laura definisce la scrittura di Tom una scrittura visuale. Non è forse quella di Pettener, oltre che ad essere densa, elegante, introspettiva, suggestiva, fortemente evocativa, anche una scrittura visuale, una scrittura che dipinge?
Andrea Cabassi
Il link alla recensione su Giuditta legge: https://bit.ly/3Cjwdtv