“Floridiana” su ALIBI Online
“FLORIDIANA” DI PETTENER: UNA SCRITTURA AL QUADRATO
Recensione a “Floridiana”, di Emanuele Pettener (Arkadia Editore)
Diciamolo subito: questo è un bel libro. Non solo per la vicenda, senza dubbio coinvolgente nelle sue sinuosità e nei suoi (piccoli) colpi di scena, ma anche e soprattutto per la qualità della scrittura – e della lingua. Intanto, è accattivante la cornice: lo scrittore “vero” (quello indicato in copertina, per intenderci) mette in campo un altro scrittore, con caratteristiche biografiche piuttosto diverse dalle sue, che racconta, in prima persona, una serie di cose capitategli durante la vita. Una scrittura al quadrato, dunque: ma, proprio per questo moltiplicarsi delle rifrazioni narrative, foriera (come vedremo dopo) di accresciuti effetti di senso, e quindi di una maggiore fruizione estetica per il lettore. L’io narrante è Thomas (Tom) Giannini, un settantunenne italoamericano newyorkese, figlio di un immigrato palermitano, che, per la tenace volontà di riscatto del padre, arriva a fare il dentista nella ricca Florida, abbinando però alla sua redditizia professione un amore viscerale per la scrittura – passione ribadita a ogni pagina. “Per questo scrivevo, scrivevo per tenermi saldo a quelle felicità, per non farle evaporare, per combattere il tempo dissoluto e dissolutore” afferma, a pag. 212, in una dichiarazione di intenti che mi sentirei quasi di sottoscrivere. Anche sua moglie April (come non pensare ai pure newyorkesi Simon and Garfunkel? “April, come she will…”) è per metà italoamericana; due anni meno di lui, docente universitaria di Storia del Cinema. Malgrado l’età di entrambi, Tom si sente ancora potentemente attratto dal corpo della consorte, ma teme (sente, o crede di sentire…) di non essere ricambiato.
LA SCRITTURA DI TOM
Altrettanto problematico è il suo rapporto con la scrittura. Avrebbe voluto scegliere una carriera letteraria (literary career), ma poi ha optato per un lavoro che gli ha permesso di realizzare l’American dream dei suoi genitori: una bella casa, la barca, una solida esistenza di relativi lussi, quattro figli (lui e la moglie sono statunitensi cattolici, non dimentichiamolo) con un futuro assicurato…
Eppure, tutto questo gli ha sottratto tempo ed energie per la sua reale vocazione. Ha pubblicato, è vero, una serie di racconti, poi raccolti in volume, ma non riesce a concretizzare l’ambizione di comporre “il romanzo”. Ci prova, con più o meno convinzione, a varie riprese; frequenta anche uno scialbo corso di creative writing. E ora, in pensione da anni, alla ricerca di stimoli (che verranno, eccome…), si aggrega, con altri attempati amici del suo corso di italiano, a un gruppo di universitari in partenza per una vacanza studio a Venezia.
Sulla trama non dico altro: non voglio guastare le non rare sorprese che attendono chi leggerà. Mi voglio invece soffermare sul linguaggio e sulla tecnica di Pettener.
Malgrado si lasci chiaramente supporre che la lingua in cui il protagonista si esprime sia l’inglese, non si avverte alla lettura alcuna sensazione di trasnslated: l’italiano della narrazione è impeccabile, spesso idiomatico, con le caratteristiche di un parlante del Nord (“un po’ mi sarebbero girate le balle”, pag. 90; “io fuori dalle balle per sei settimane”, pag. 131).
Compaiono, peraltro, diverse locuzioni lasciate in inglese (“le chiazze vinacee delle bacche delle sea grapes, vinte dal vento”, pag. 101; “aprii il closet tinto di bianco”, pag. 104; “quando ritenne che il meeting fosse concluso” – riferito a un colloquio tra docente e studente – pag. 161, ecc…). Il che corrisponde, in effetti, a quanto il Narratore riferisce di sé stesso (“I miei critici al tramonto del secolo sorrideranno del mio vezzo d’usare parole straniere”, pag. 147), ma con l’effetto straniante di vederne capovolto il risultato linguistico (le parole che a noi suonano come “straniere”, sarebbero infatti per lui quelle ordinarie, e viceversa…).
Un’altra sensazione di lieve spaesamento la si avverte nella penultima riga, quando Tom afferma (e, per evidenziarlo, lo mette anche in corsivo): “non scriverò mai più”. Ebbene, a pag. 97, parlando delle proprie vicissitudini, aveva annotato: “ora che ne sto scrivendo”; noi sappiamo benissimo – visto che le abbiamo appena lette – che è andato avanti con la stesura fino alla fine, e che non può aver elaborato letterariamente i singoli episodi della vicenda, lunga e complessa, all’epoca in cui li viveva (ossia: il tempo della scrittura non può coincidere con quello della storia raccontata), giacché si lamenta continuamente di non riuscire a farlo (ci arriverà solo alla fine: “m’è venuta improvvisamente voglia di scrivere, non accadeva da anni”, pag. 204).
RISONANZE LETTERARIE
Si coglie qualche risonanza letteraria, sobriamente disseminata nel testo: il “galeotto fu il libro e chi lo scrisse” di pag. 100 non richiede, come si suol dire, presentazioni; i “petali stanchi e un po’ sgualciti” di pag. 140 sono un evidente prestito dal Gelsomino notturno di Pascoli; il “glorioso mattino” osservato a pag. 172 è tutto shakespeariano (“Full many a glorious morning have I seen”)…
Vi sono allusioni chiaramente riconoscibili – sebbene non del tutto esplicitate col nome o col titolo – a registi (Manuel de Oliveira, pag. 124), film (“Il laureato”, pag. 105), commediografi (George Bernard Shaw, pag. 101), architetti (Santiago Calatrava, pag. 168). Altri autori (Vladimir Nabokov, Truman Capote, Raymond Carver, John Williams, Gabriel García Márquez, Giovanni Boccaccio, Masuccio Salernitano…) sono invece citati direttamente.
A pag. 135, troviamo un tenero gioco di parole riferito alla venuta della Primavera e al nome della moglie (“aprile era lì lì per arrivare, col suo sorriso da monello”). Ma ve ne sono anche di più icastici: “Centinaia di giovani imbecilli che schitarrano e scatarrano fino all’alba” (pag. 178).
VENEZIA
Veramente splendida tutta la parte su Venezia. Per Pettener, nativo di Mestre, la Perla della Laguna non è certo un “altrove” esotico, da scoprire e osservare con lo stupore del viaggiatore incantato. Eppure, la sua prosa (o, se vogliamo stare al gioco della finzione, la prosa di Thomas Giannini) raggiunge qui un’intensità evocativa invidiabile.
“La tua scrittura è molto visuale. È una forma di pittura” commenta, con indubbia acribia critica, Laura, la giovane studentessa argentina che accompagna il protagonista nei lunghi pellegrinaggi tra calli e campielli, e prosegue: “Sì, sembra che posizioni sempre gli oggetti e i personaggi nella tua pagina secondo un disegno simmetrico, e poi dalle tue frasi sgorga il colore”. Ma, mi viene da aggiungere, da queste pagine non emergono solo forme e colori: vengono evocati magistralmente anche i suoni, gli odori, i sapori, persino le sensazioni tattili.
Qualche esempio. “Il cielo arde d’azzurro e il sole delle undici batte sul campo, sul grande pozzo, sui manifesti elettorali, sui chioschi di granite e cianfrusaglie, sulle fronti imperlate di turisti in shorts e su una vecchia cabina telefonica ormai inutile”.
“Profusioni di bellezza, palazzi sontuosi che si specchiano superbi sulle acque verdi del Canal Grande, chiese fresche in cui rifugiarsi dalla calura meridiana e trovarvi scrigni di tesori, statue di santi dallo sguardo acceso e dipinti dai colori incendiari, cieli violentemente azzurri la mattina e ammantati di fuoco e oro al tramonto”.
“C’è stato un momento di silenzio, silenzio emozionato, screziato dal brusio dei pescatori”.
“Borbottavano dai canali alcune barche pigre, il rumore secco di una serranda che si alzava rompeva la quiete, per un attimo, poi di nuovo la pace umida del primo mattino, le rose stillanti dei giardini”.
“Verso ancora un po’ di questo vino che sa di sale e laguna”. “La mattina è ancor fresca e aromatizzata da un curioso odore di cipolla cruda”. “Nell’aria, aromi di mattoni e detersivo”.
“Venezia ha colori puri di velluto nero e odora di urina”. “Piccolo, palpitante, disteso sui freddi marsegni”. “La tua pelle ha la delicatezza della seta, la mia è ruvida e spessa come uno straccio da pavimenti”. E così via…
Emanuele Pettener, a mio avviso, mostra, nella propria scrittura, qualcosa che lo apparenta ai grandi prosatori della sua terra. Con Luigi Meneghello, per esempio, mi pare condivida l’ardente, percettibilissimo amore per la lingua materna, sentimento che riscalda la quotidianità un po’ scipita del loro inglese accademico (Meneghello insegnava lingua e letteratura italiana a Reading; lui è “professor” della stessa materia alla Florida Atlantic University).
A Giuseppe Berto sembrano invece accomunarlo l’analisi laboriosa, tormentata – e però allo stesso tempo segnata da un ironico distacco – che il Narratore effettua sui propri pensieri, retropensieri ed emozioni (vedi “Il male oscuro”), ma anche un certo sguardo, appassionatamente scrutatore, rivolto alla città di Venezia (cfr. “Anonimo veneziano” e “La cosa buffa”).
Provate a leggerlo, e poi fate le vostre considerazioni in merito…
Marco Grassano
Il link alla recensione su ALIBI Online: https://bit.ly/3qMN56t