Domani è un altro giorno

Il primo capitolo del nuovo romanzo di Giampaolo Cassitta

 

 

 

1963 

CHILOMETRO SETTE

 

 

Il diciotto di novembre
di un anno che non so
anche un passero da un ramo per paura se ne andò. 

Venne buio all’improvviso e la vita sua finì
il ragazzo che sorride
lo chiamavano così. 

Il ragazzo che sorride
testo Vito Pallavicini musiche Mikis Theodorakis
voce Albano Carrisi 

 

 

Mamma, ti ricordi? 

Questa non è una favola. E non ha un lieto fine.
Soprattutto ha un brutto inizio.
Il nostro narrare comincia da un semplice componimento, come la tua vita aggrappata da sempre alla musica. Esistono canzoni che hanno disegnato le nostre strade ma esiste “la canzone”, quella che ha modellato e scolpito il presente e il futuro partendo dal passato, da una data che è rimasta indelebile e che ha rappresentato l’arrivo di un indefinibile inverno gonfio di nebbia, di pioggia e di malinconia.
Noi siamo stati quella canzone, quella data, siamo vissuti in quel buio all’improvviso che ci ha inghiottito, probabilmente per sempre. Ci hai detto che quella melodia era il segno del destino, perché anche quel Dio – con il quale ti sei scontrata e con il quale non hai mai fatto pace, ma gli hai concesso una lunga tregua – aveva deciso di riporre musica nella tua tristezza, di ricordare quel ragazzo che sorridente la mattina del 18 novembre 1963 esce di casa, saluta la sua famiglia, la abbraccia con leggerezza, con la certezza che il tempo per l’amore è lungo e tutto da spianare nel percorso della vita, e invece non farà più ritorno.
Usciva per timbrare il biglietto di sola andata verso il suo capolinea.
Venne buio all’improvviso in quell’appartamento appena acquistato dove c’eri tu, con quei vestiti chiari, la radio che suonava le canzoni del periodo, magari Come te non c’è nessuno cantata da una giovanissima Rita Pavone; nella casa dove, dopo avermi posizionato per terra sulla coperta grigia a giocare con quelle costruzioni in legno, aver coccolato mio fratello raccolto nei suoi primi nove mesi di esistenza, ti dirigevi ai fornelli per preparare la cena.
Lui, mio padre, il tuo Riccardocuordileone, come lo chiamavi tu, non sarebbe rientrato per pranzo. Troppo lontano dalla città, non c’era tempo. Avrebbe mangiato sul luogo del lavoro, forse sulla sua ruspa, una Caterpillar Challenger arancione.
Stava costruendo una strada con molte curve e qualche rettilineo che si snodava in un sentiero nervoso tra colline antiche davanti al mare.
Per anni ci siamo recati al chilometro sette della strada che tu hai maledetto, per anni ti sei chiesta perché non ti permettessero di sistemare una lapide sulla roccia traditrice, per anni mi sono chiesto se tutto questo avesse un senso.
Quella strada, quelle curve e quel mare sono state contorno intenso alla nostra vita e al mio narrare.
La stele non è stata mai collocata e quel chilometro sette ha rappresentato la nostra assurda linea di confine.
Oltre, per anni, non sei mai andata.
Oltre, per anni, non ho mai osato.
Era come dover varcare l’ignoto, come incamminarsi in quelle tenebre che, senza chiedere il permesso a nessuno, avevano rapito il ragazzo che sorride.
Il 18 novembre 1963 venne il buio all’improvviso nella nostra luminosa abitazione con un cortile dove al centro c’era un albero di mandorle.
Arrivarono in coppia.
Due della ditta, ma non erano suoi colleghi.
Ti domandarono se potevano entrare, se potevano parlare. Spegnesti la radio e scrutasti con malcelata curiosità i volti di questi strani signori che io ho immaginato vestiti di scuro, come dei becchini, portatori di disgrazie.
Hai sempre affermato che nutrivi come un presentimento, un qualcosa che non quadrava nei loro occhi immobili, poco umidi, sterili.
Hai sempre puntualizzato che quel lunedì eri nervosa e che avevo rimediato uno sculaccione per chissà quale marachella.
Cose da bambini.
Non sapevo che stavo per essere catapultato nel mondo degli adulti in un attimo.
Così si fece buio all’improvviso.
Un incidente, non troppo grave dissero, ma neppure troppo lieve. Dovremmo accompagnarla all’ospedale, non si preoccupi, stia tranquilla, non serve agitarsi; erano preparati a soppesare l’angoscia e la disperazione.
Può lasciare i bambini a qualcuno, magari alla vicina di casa.
Non si preoccupi.
Sono frasi di circostanza che si dicono di fronte agli occhi delle mogli o dei genitori quando non si vuol raccontare altro, quando non si sa raccontare altro, quando non si riesce a raccontare altro.
Non si preoccupi.
Venne buio all’improvviso e subentrò l’inquietudine.
Non ricordo nulla di quel giorno ma è come se ricordassi. Ce lo hai raccontato per giorni, mesi, anni.
Fino allo sfinimento. Come una regista meticolosa.
Hai descritto in maniera minuziosa la trama, la scenografia, i dialoghi; hai saputo trasmettere gli umori, gli odori e i colori di quella giornata dove il ragazzo che sorride sparì dalla nostra vita senza che io e mio fratello ci rendessimo davvero conto vi fosse mai entrato. Da quel momento nel nostro canovaccio si insinuò l’assenza e il 18 novembre 1963 divenne l’archetipo assoluto della nostra famiglia. Tutto si fermò: le tue canzoni, i tuoi vestiti chiari, i tuoi guanti bianchi, la radio, la televisione, il cinematografo dove avevi incrociato il tuo Riccardo per la prima volta; le parole divennero silenzi e lacrime, voragini tra te e il mondo, tra te e noi.
Solo cinque giorni dopo avvenne un fatto che sconquassò i destini del Pianeta. A Dallas, in Texas, venne assassinato John Fitzgerald Kennedy, un altro ragazzo che sorrideva e che, rispetto a mio padre, non osservava le cose con semplicità e sottigliezza: lui quelle cose le modificava.
Per anni hai accomunato i due ragazzi sorridenti in un’unica tragedia e per anni ho provato a comprendere quale filo legasse noi a quella famiglia ricca e potente. Per anni ho provato a scavare tra i due sorrisi, quello di John e di mio padre, ho provato a confrontare le loro foto e la loro felicità. Non c’erano molte affinità, anche perché il destino disegna e cancella strade e fiumi ed è difficile capirne il percorso.
Mio padre era necessario alla mia famiglia, Kennedy era necessario alla Nazione.
Entrambi erano caduti sul lavoro: lui su una ruspa, mentre svuotava una collina; Kennedy su un’auto, cercando di riempire con concetti nuovi le curve della politica.
Mio padre aveva trentatré anni, Kennedy quarantasei. Erano giovani ed erano ambedue essenziali.
Per anni ho studiato la vita del presidente che si innamorava di tutto e ho afferrato la differenza sostanziale che c’era tra te e Jacqueline: lei doveva dividere il suo uomo con troppe donne; tu, invece, lo dividevi con noi.
Eravate nate nel 1929. Avevate entrambe trentaquattro anni quando i ragazzi che sorridevano vi abbandonarono senza poter dire: «Ciao, mi dispiace.» Senza potervi abbracciare e scusarsi.
Non c’erano molte affinità tra i due ragazzi sorridenti, non ce ne potevano essere.
Anche a lei, quando arrivò in ospedale con suo marito ferito, le dissero: «Non si preoccupi.»
Lo ripeterono anche alla Nazione. Forse soltanto quello avete avuto in comune: la frase di circostanza universalmente adatta ad attutire il dolore. Per il resto erano solo dei destini a incrociarsi.
Un’autostrada dove si camminava veloci e una mulattiera davanti al mare.
Da quel giorno per me tu saresti stata Jacqueline, quel viso antico e severo, quella nobiltà nell’occultare il dolore, nel camminare a testa alta in una nuova vita.
Sino al 17 novembre 1963 eri moglie.
Dal 18 novembre 1963 diventavi vedova e noi orfani, una condizione che non conoscevo e che ci avrebbe segnato.
Per sempre.
La nostra nave aveva preso un’altra direzione. Non sapevamo quale. 


Arkadia Editore

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