Da luoghi lontani
IL PALAZZO RINASCIMENTALE
Carlo Cuppini
Tutto è reale, tutto è immaginario.
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Il tempo respira, il passato può cambiare.
L’infanzia è impronta di futuro nelle vie di una città immutabile, collocata fuori dalla geografia e dalla storia. Qui ogni cosa parla di arte, di filosofia e solitudine, di natura, amicizia e contemplazione. Di libertà e trasgressione. Di un confine immateriale posto in ogni dove.
Il borgo si raggiunge costeggiando strapiombi. È la capitale di un minuscolo ducato sperso sull’Appennino, disincagliato dalle selve circostanti, scomparso un giorno in mezzo alle nuvole e mai più ritrovato. Un sogno architettonico capace di attrarre le menti illuminate dell’epoca rinascimentale, conservandone tra i vicoli il suono dei passi.
La casa è all’ultimo piano di un antico palazzo nobiliare, sulla sommità di uno dei due colli su cui è disteso l’abitato. Dalla terrazza si vedono i tetti che digradano da ogni lato. Più in basso, un salto nel vuoto oltre la cerchia muraria. Quindi le vallate, che scendono tutto intorno per finire a nord con lo scorcio fulmineo di un Adriatico lontano e risalire nelle altre direzioni a formare un concluso anello collinare.
Da lassù la certezza è il volo delle rondini d’estate, il transito dei nembi mastodontici ad altezza d’uomo, le cime degli alberi scosse dai venti, il rintocco delle campane. Poi il lento ruotare della volta celeste, punteggiata di stelle, percorsa dai pianeti, rigata da meteore infuocate. Sempre uguale e mutevole, appoggiata sulla punta dello sguardo di un bambino sdraiato sulle tegole.
Trenta metri più in basso l’architettura rinascimentale, indifferente alle automobili, alla luce bianca dei lampioni, al chiasso degli studenti nei locali. Le piazze, le stradine, i vicoli di mattoni, le scalette, le volte.
Al centro del dedalo, il Palazzo Ducale: costruzione imponente, tentacolare, che domina, con i segreti dei numeri e della proporzione, la conformazione di un terreno irrazionale.
Le pareti del palazzo, anch’esse di mattoni come ogni altro fabbricato, sono intervallate sull’intera superficie dai buchi quadrati dove nidificano i piccioni, traccia di un involucro mancato: la pietra bianca che avrebbe dovuto affermare, fin dove arrivano la vista e la fama, il teorema del potere e dello splendore. Le sole lastre che sono state posate adornano i portali, le finestre, il perimetro della pavimentazione della piazzetta davanti all’ingresso principale. Nel bianco vorticano immobili spirali di pietra più grandi di un cuore umano: attestazioni dell’origine subacquea di questa visione incantata, che perpetua l’impressione di un regno in fondo al mare, protetto da una bolla atemporale.
L’anima del palazzo è la facciata costruita sul retro, rivolta non all’interno del borgo ma alla vallata, con i due Torricini slanciati come minareti, i tre livelli di balconi, l’aquila che dal tetto guarda il punto dove è sepolto un tesoro. Una facciata chiusa in se stessa per folgorare gli stranieri sulla strada e custodire il sonno degli eredi. Senza una porta da cui poter entrare.