“Contro la gioventù” su Avvenire
Il nuovo romanzo. Pablo d’Ors: tutta la desiderabilità dell’età adulta
L’autore spagnolo si cimenta in un singolare romanzo capace di ribaltare i luoghi comuni sulla gioventù valorizzando nei fatti la pienezza di vita che è nella maturità
«Non è affatto onorevole essere giovani». Nell’era della gioventù esasperata e del giovanilismo a oltranza, l’opinione di Pablo d’Ors ha un suono stridente. Lo scrittore e drammaturgo nonché teologo e sacerdote spagnolo, però, non ha timore di ribaltare il leitmotiv dominante. E lo fa in modo circostanziato. «Contro la gioventù? Sì, perché se non fosse stato uno sciocchino, come gli aveva detto Klenka, non si sarebbe fatto sedurre da quelle donne mature e lascive. Contro la gioventù perché a quell’età la mente e il cuore sono ossessionati da un solo pensiero: il possesso amoroso. Contro la gioventù perché gli ideali raggiungono a quell’età altezze vertiginose e insieme grottesche, allontanando le loro vittime dalla realtà, unica consolazione possibile. Contro la gioventù, perché qualunque ricerca o intento, anche i più apparentemente innocenti, si rivelano in tutta la loro pienezza solo durante la maturità. Contro la gioventù, infine, perché i giovani non sono ancora loro stessi, bensì coloro che vorrebbero essere; e perché vivono nell’imitazione trasformando il mondo in un immenso teatro, ovvero in una farsa». Il suo Contro la gioventù, appena pubblicato in Italia da Arkadia (pagine 344, euro 18,00), non è, però, un pamphlet al vetriolo contro i ‘ragazzi di oggi’. È, al contrario, un romanzo in un cui dramma e ironia si fondono con eleganza. D’Ors, tra i più autorevoli esperti di mediazione, combina uno stile leggero con riflessioni profonde, in cui risuonano echi kafkiani. Non è un segreto l’amore dell’autore per Franz Kafka, da lui considerato il cantore più autentico della modernità poiché sa fare coincidere la scrittura con la vita interiore. Di Kafka, non a caso, è appassionato anche il protagonista di Contro la gioventù, Eugen Salman che, proprio per seguire le sue orme e far esplodere il proprio talento letterario, accetta il trasferimento dalla Germania a Praga. Al ventiseienne, nell’autunno 1991, all’indomani della caduta del Muro di Berlino, viene conferito l’incarico dall’azienda per cui lavora di aprire una filiale nella capitale della Repubblica ceca appena passata all’economia di mercato. Non ci riuscirà. Né tantomeno soddisferà le proprie smanie letterarie. Invece di scrivere il vagheggiato primo libro, si troverà – in puro stile kafkiano – a vivere dentro un romanzo, emulando i personaggi di Kafka o Kundera. «Vite prese in prestito, sentimenti presi in prestito: esistenze intere che sono il mero frutto dell’imitazione. Mi chiedo anche quante vite altrui iscriviamo nella nostra prima di trovare quella che ci appartiene veramente», scrive Eugene-d’Ors. Nel labirinto di finzioni e auto-finzioni, però, il giovane finirà d’un tratto per smarrirsi e per infliggere, senza ragione, sofferenza gratuita a un caleidoscopio di figure femminili con cui entrerà in relazione. Donne che, in alcuni casi, per lui proveranno dei sentimenti autentici, come l’attempata Karla Simonicek e la giovanissima Hanna. A quest’ultima, ingenua e appassionata, Eugen farà credere addirittura di essere un agente segreto. «Aveva sporcato tutto quanto, senza eccezioni; l’aveva corrotto. Non capiva come, ma era riuscito a distorcere e ad avvelenare tutto. Capiva che qualcuno si era impossessato di lui, della sua voce, delle sue parole. Capiva finalmente che non si può giocare impunemente con l’identità, perché si paga sempre un prezzo molto alto per cercare di scoprire chi siamo. Che c’è sempre qualcuno che soffre durante quella ricerca». Un dramma tipico della gioventù. L’età in cui a causa della caparbia ossessione di scrutare tutto, lo sguardo diviene laterale. «Certo – afferma l’autore -, dopo lo sguardo laterale, l’uomo ha ancora un’opportunità: lo sguardo limpido. Dietro il sorriso beffardo, sempre incoraggiato da una stupida autosufficienza e da un altrettanto stupido sentimento di superiorità, c’è ancora la possibilità di un sorriso gentile e comprensivo». Questo, però, Eugen non può comprenderlo a ventisei anni, quando non ha ancora avuto il tempo né per il fallimento né per la felicità. Alla fretta giovanile, si addice solo l’esperimento. «Ah la gioventù, la mia gioventù! Ah, tutta quell’insicurezza, tutto quell’affanno di accumulazione, tutto quell’insaziabile egoismo! Che sollievo averla lasciata alle spalle! Che conforto essere adulti e sapere che la gioventù non tornerà!». L’esatto contrario di quanto propone un certo leitmotiv sociale che ha trasformato l’età adulta in una ma-lattia da evitare o, quantomeno, da curare. La stessa narrativa che ha fatto di tutto per invisibilizzare la morte, anestetizzare la sofferenza, idolatrare il moto perpetuo. Per questo, fa bene leggere le parole di Pablo d’Ors ora che il Covid ha ricatapultato sotto i riflettori quanto, per oltre mezzo secolo, ci siamo sforzati di rimuovere. In questa tregua della tempesta sanitaria, le sue parole offrono una pista, forse impervia, ma affascinante su cui mettersi in cammino. E disegnare, passo dopo passo, un futuro in cui il crescere per diventare adulti non faccia più paura.
Lucia Capuzzi
Il link all’articolo su Avvenire: https://bit.ly/3uB2Z7I