“Con tutto il mio cuore rimasto” su La Sicilia
Concè tra Pirandello e Joyce
“Con tutto il mio cuore rimasto” di Rosario Palazzolo, storia di un ragazzo rinchiuso da due donne in una stanza per punirlo di una colpa che in realtà non ha commesso
“Con tutto il mio cuore rimasto”, di Rosario Palazzolo (Arkadia Editore), è un romanzo che ricorda Pirandello (non tutto ciò che appare è vero), ma se vogliamo salire più in alto ha qualche parentela con Joyce, con i suoi “epideci” che in senso laico indicano la trasfigurazione della realtà. Il romanzo racconta la storia di un ragazzo che è rinchiuso da due donne nella sua stanza per punirlo di una colpa che in realtà sembra non avere commesso, come si evince dal diario che il ragazzo stesso scrive nei giorni di prigionia. Concè, questo il suo nome, probabilmente Concetto, è ossessionato dalla morte del fratello maggiore che si è impiccato perché non ha retto alla vergogna di essere stato violentato da un prete. Il dolore diventa ossessione perché anche Cecè ha subito la stessa violenza. Nel buio della sua stanza parla con Gesù. E qui il lettore ha il primo smarrimento. Il linguaggio dello scrittore acquista toni umoristici, irreali, stravaganti. Per cui le cose si complicano, non sono quelle che il ragazzo racconta o forse le racconta perché è prigioniero delle sue angosce. A questo punto ci allontaniamo da Pirandello e da Joyce senza perderli di vista. Ecco come descrive la morte del fratello: “Lo hanno vestito con la giacca della cresima, Carmelo, che gli va un poco stretta… fa proprio una bella figura di morto, va bene, ma è così poco sincero, così eccessivo, e dovremmo inventarci un altro modo, io credo, per salutare la vita, un modo che ora non mi viene, gesù… ”. La parola “gesù” è presente dalla prima all’ultima pagina, ma la scritta in minuscolo non è un modo per offenderlo, ma per sentirlo vicino alle sue angosce, chiedere aiuto. Palazzolo, che è anche drammaturgo e regista, inserisce continui colpi di scena. Il suo racconto è un fiume che parte dalla sorgente e s’inoltra nella valle con un linguaggio ora grottesco ora arrabbiato ora malinconico. “Gridavo e poi dicevo cose che purtroppo non erano cristianissime – annota il ragazzo nel suo quaderno – mi dispiace, è che mi sentivo il cervello rosicchiato da una specie di disperazione… mi dicevo che non valeva più la pena di campare… ”. Poi la zampata: “Patatpàm! Un’idea incredibile è spuntata dentro alla mia testa, una magicabula che mi ha fatto accese tutte le luci del comprendonio…”. Questo è il primo fiume che salta di pietra in pietra, con neologismi e dialettismi spassosi e smarrisce il lettore. Poi dal fiume si dipanano due rami: il primo attraversa i prati erbosi della superstizione e della violenza “innocente”, il secondo l’amore complicato, la paura, lo smarrimento. Verso la foce il fiume diventa unico, un grande corso d’acqua che porta con sé ogni residuo, reale e immaginario, che ha raccolto durante il suo cammino. Quando il lettore a bordo della sua barca, che attraversa questo fiume uno e trino, arriva in mare aperto non ha le idee molto chiare perché Rosario Palazzolo gliele confonde. Improvvisamente non sai se è tutto un gioco… oppure? Non vado oltre per non guastare la sorpresa al lettore. Posso dire che la sorpresa è talmente grande, complessa, che non sembra una sorpresa. Eppure, è qui la magia di questo romanzo strano, spiazzante, è qui il suo segreto. È una sorta di giallo senza essere un giallo, un vino rosé che ha il gusto del vino bianco senza esserlo. Non c’è una morale che rassicuri e neppure una immoralità che spaventi. Si tratta di un racconto che contiene la complessità della vita, le sue ombre trasparenti e le sue luci opache.
Piero Isgrò