Le sezioni sono dedicate alle opere edite per la Narrativa, la Saggistica e la Narrativa a fumetti
CAGLIARI. Il Festival Premio Emilio Lussu ha annunciato i nomi dei finalisti per le sezioni Narrativa, Saggistica e Narrativa a fumetti, tra i quali saranno scelti i vincitori della decima edizione. Per la Narrativa edita, nella cinquina finalista troviamo Antonio Franchini con il romanzo Il fuoco che ti porti dentro, edizioni Marsilio; Paola Musa con il romanzo Umor vitreo, Arkadia edizioni; Piergiorgio Paterlini con il romanzo Confiteor, edizioni Piemme; Lidia Ravera con il romanzo Un giorno tutto questo sarà tuo, edizioni Bompiani; Dario Voltolini con il romanzo Invernale, editore la Nave di Teseo. Per la Saggistica edita sono in finale Michele Ainis con Capocrazia, editore La Nave di Teseo; Marzio Breda e Stefano Caretti con Il nemico di Mussolini, editore Solferino; Alessandro Carlini con Se il fuoco ti desidera, edizioni Utet; Gianni Oliva con 45 milioni di antifascisti, edizioni Mondadori; Concetto Vecchio con Io vi accuso, edizioni Utet. A selezionare le opere per entrambe le categorie è stata la giuria internazionale presieduta dallo scrittore Guido Conti e composta da Miruna Bulumete dell’università di Bucarest, Raniero Speelman dell’università di Utrech, dallo scrittore e giornalista Bruno Quaranta e dalla giornalista Manuela Ennas. Per la Narrativa a fumetti edita vanno in finale Paolo Bacilieri con Piero Manzoni, edizioni Coconino Press; Micol Beltramini e Agnese Innocente con Heartbreak Hotel, edizioni Il Castoro; Daniele Bigliardo e Vito Bruschini con Rahere. Un giullare sulla via Francigena, Palombi editori; Pietro Scarnera con Viaggio in Italia, edizioni Coconino Press; Sualzo con Dove c’è più luce, edizioni Tunué. La giuria internazionale di categoria è presieduta dall’illustratore, autore e critico del fumetto spagnolo Ángel De La Calle, ed è composta dal critico del fumetto Mario Greco, dallo scrittore e sceneggiatore Bepi Vigna, e dall’insegnante e fumettista Sandro Dessì. I nomi dei vincitori delle rispettive sezioni saranno comunicati durante la conferenza stampa di presentazione del programma della X edizione del Festival Premio Emilio Lussu. La manifestazione si terrà a Cagliari dall’1 al 6 ottobre. Le cinquine finaliste sono consultabili sul sito www.festivalpremioemiliolussu.org.
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La vita corre e se non l’acchiappi ti lascia indietro. E’ imprevedibile. Devi adattare le emozioni ai cambi repentini di rotta, ai vorticosi giri di boa, alle situazioni che si creano inaspettatamente. Accade soprattutto con le perdite, quelle importanti, legate alla famiglia e all’amore. Quando succede ti senti perso, vuoto, solo. Nei momenti di sconforto e di disordine, ti serve coraggio. E’ l’unico elemento che restituisce vigore alla forza, altrimenti rischi di rimanere immobile nel dolore. Tutto, così, passa lento e senza colori. Il legame dei figli verso i genitori e viceversa resta saldo anche quando si spezza. Si impara, addirittura, ad amare in silenzio, senza rumore. E se la vita sconvolge le esistenze perché consegna un carico di preoccupazioni e di sofferenze, bisogna sapere da che parte stare. E’ necessario comprendere anche come affrontare i tormenti che ruotano attorno alle cose di famiglia. Non hai scelta se vuoi appianare i problemi che toccano i sentimenti. Spesso diventi ruvido, secco. Capita, finanche, che ti inaridisci nel trovare la parte dritta di questioni contorte, complicate. Allora, prendi la vita per quello che essa stessa ti offre ricavandone il meglio, se puoi. In Le nobili sorelle Angioy di Adriana Valenti Sabouret conosci la storia di tre nobili ragazze cagliaritane, orfane di madre, figlie di un eroe rivoluzionario in esilio a Parigi. Le sorelle sono in difficoltà perché hanno un forte dilemma: continuare ad amare il padre, contro il suo apparente abbandono, oppure imporsi di dimenticarlo sino ad ignorare le sue ultime volontà. Giuseppa, Speranza e Maria Angela Angioy sono sopraffatte da un carico emotivo troppo pesante per la loro età. Il romanzo si basa su una storia vera. La narrazione si fonda sull’amore, la perdita, il dolore, il tradimento, la forza, delle tre sorelle che sono al bivio della loro esistenza per delle scelte importanti da prendere. La scrittura è intensa.
Lucia Accoto
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Sul comodino della Rambaldi
Lucia Guida – Pescara – insegna inglese e cura rubriche letterarie su siti d’arte, musica e spettacolo e un blog su WordPress. Ha inoltre pubblicato molti racconti, poesie e i romanzi: La casa dal pergolato di glicine e Romanzo popolare con cui ha vinto diversi premi letterari. “Mi piaceva pensare che quella luminosa mattinata settembrina fosse una profferta di pace da parte della natura nei miei confronti. Nell’arco di tempo trascorso in clinica per me c’era stata poca differenza tra le giornate di luce e di buio; mentre cercavo di riprendere quota non era passato un momento in cui io non avessi apprezzato il fatto di essere ancora viva seppure malconcia, che fossi seduta su una sedia a rotelle o sdraiata sul mio letto ortopedico da degente. Ogni accenno malinconico finiva con lo sfumare nella mia tenacia a proseguire in una lenta rigenerazione emotiva e fisica in cui c’era poco spazio per le lacrime e molto di più era destinato alle stille di sudore che mi imperlavano la fronte quando il mio fisioterapista mi spingeva a osare con un movimento più complesso dei precedenti per guadagnare qualche briciola di autosufficienza in più.” Fine giugno, caldo umido. Alice Bellucci, 45 anni, rientra in auto dall’ufficio. È tempo di bilanci. Le manca l’aria. Accende l’aria condizionata e medita sui troppi errori del passato. Il camion che la precede viaggia troppo lento ed emana forti esalazioni di gasolio. Sorpassarlo si rivelerà l’ennesima scelta sbagliata di Alice. Quella che le cambierà la vita per sempre. Ora dell’incidente rammenta solo il buio. In ospedale l’hanno tenuta in coma farmacologico per giorni. Trauma cranico di primo grado, commozione cerebrale, perdita di coscienza, frattura di omero, costole e contusioni al viso. E la memoria latita.
Paola Rambaldi
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“Per me il racconto è un’acrobazia, una piroetta”, dice Elena Rui, al Giardino delle Rose alla presentazione del suo “Affetti non desiderati” (Arkadia Editore) con Paolo Codazzi e Massimiliano Scudeletti, in un evento a cura dell’associazione Febbre e Lancia in collaborazione con “I libri di Mompracem”. “Nel racconto bisogna cadere in piedi”, spiega l’autrice, “che il cerchio si chiuda e si ritorni al punto di partenza, insomma ci sia una vera conclusione, qualcosa che lascia il lettore interdetto, stupito o con delle domande. È questo il mio intento”. “Affetti non desiderati” contiene nove racconti ambientati ai nostri giorni tra Parigi, dove vive l’autrice, e Padova, la sua città natale, ma ci sono anche dei non luoghi come gli hotel, “forse per costringere i personaggi in un ambiente chiuso e vedere le loro reazioni”. Il titolo del libro rimanda con un gioco di parole agli “effetti indesiderati” che si leggono nei bugiardini ed era il titolo originario, poi tramutato in “Affetti non desiderati”. Ma quali sono? “I racconti parlano di rapporti di amicizia, amorosi, passionali, familiari, complicati come nella vita di ciascuno di noi e quindi non desiderati in questo senso”. Prove da superare, scatti di ira, compromessi, rancori taciuti e poi esplosi, in relazioni difficili per più motivi: l’età, le condizioni sociali ed economiche, il sentimento non ricambiato o che va a diminuire. Nella forma breve dei suoi racconti Elena Rui disegna dei personaggi in cui ogni lettore può riconoscersi, per la vastità e universalità di ciò che viene raccontato ovvero l’amore nella sua quotidiana diversità. “Mi interessa guardare la complessità del reale senza prendere posizione”, dice l’autrice, “scrivere è soprattutto uno sguardo su ciò che ci circonda”. Che cosa è per lei la scrittura? “Per me scrivere è faticoso, perché si è soli con se stessi, non si sa se quello che si sta scrivendo va bene e lo si può sapere solo dopo averlo riletto e corretto a distanza di tempo. La parte più divertente della scrittura sono i dialoghi, mi piacciono molto, perché da questi si deducono molte cose”.
Paolo Mugnai
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L’incontro con John Domini è al Vomero, nella zona collinare di Napoli, in un bar defilato, poco distante da via Luca Giordano. John è qui in Italia per promuovere il suo romanzo (Talking Heads 77) e per incontrare i parenti sparsi tra Napoli e il Cilento. Fa molto caldo. Ci accomodiamo a un tavolo vicino l’ingresso, rinfrescato, si fa per dire, dall’ombra di un albero di alto fusto. Sul tavolo ci sono i nostri caffè appena ordinati e una copia de Il teatro di Sabbath. Il nostro argomento di conversazione è Philip Roth. Racconto a John che una volta sul blog lanciai un sondaggio sul Grande Romanzo Americano. Selezionai una ventina di titoli: Moby Dick, Furore, RevolutionaryRoad, Le correzioni… Il romanzo più votato fu Pastorale Americana. Non ne fui sorpreso: in Italia Roth è uno degli scrittori americani più venduti; non c’è libreria che non sia fornita di almeno quattro cinque titoli di Roth, e tra questi quattro cinque c’è sempre Pastorale Americana. John, è un azzardo dire che Roth sia stato il più grande scrittore del suo tempo?
Nessun azzardo, certo! L’opera di Philip Roth è monumentale, e con uno sguardo onesto e profondo verso l’animo umano. Ne abbiamo una considerazione quasi sacra, è un riferimento ineludibile per chiunque. Detto questo, non sono convinto che di lui si possa dire il “più grande.” Alla fine del primo quarto del XXI secolo, il panorama della letteratura americana ha preso altri riferimenti, perlopiù afro-americani. I figli di Toni Morrison, si può dire, hanno lanciato un nuovo Rinascimento. Un romanzo come The Heaven & Earth Grocery Store di James McBride può essere considerato un capolavoro alla pari di certi romanzi di Roth, come per esempio The Human Stain.
Roth ha scritto una trentina di romanzi. Il libro che ho scelto per avviare la nostra conversazione non è Pastorale Americana, del quale parleremo sicuramente più avanti, ma Il teatro di Sabbath, pubblicato nel 1995, due anni prima di Pastorale. L’ho scelto perché lo considero il romanzo più rothiano di Roth, il romanzo in cui Eros e Thanatos (due topoi centrali della poetica di Roth) raggiungono i picchi più alti e si amalgano meglio che in altri testi. Sei d’accordo?
In una parola: sì. Come dici tu, la narrativa suggerisce una commistione di Eros e Thanatos ipnotizzante, perché tutte le avventure sessuali di Mickey Sabbath rivelano un legame forte con due vuoti enormi nella sua anima: il fratello morto durante la Seconda Guerra Mondiale, e più recentemente la complice del suo adulterio e della sua lussuria: Drenka. Ma descrivere il romanzo in questo modo sarebbe una semplificazione eccessiva; non è per niente una tragedia semplice, basata su schemi elementari. Al contrario, è una comedia che lascia lividi, piena di sorprese ma che non ha nulla di pornografico né di morale. I movimenti nel buio, in questo Teatro, finiscono in un vero dramma, con grandi rischi. Ne viene fuori un degradato e disordinato Captain America, avvolto nella bandiera Americana.
Mickey Sabbath, l’artista di strada costretto da una malattia alle dita a cessare l’attività, è un povero disperato, ma non vive dando le spalle alla morte come farebbero le persone normali. Non si può dire che ispiri simpatia nei lettori, Mickey è un uomo inassolvibile, volgare, lussurioso all’eccesso. Solo Roth sembra provare per i suoi fallimenti, per la sua vita ripugnante una certa compassione: “Caro lettore, non giudicare troppo duramente Sabbath: molte transazioni farsesche, illogiche e incomprensibili, sono classificabili grazie alle manie della lussuria”. Roth ha ragione: Mickey non va condannato perché il primo a condannarsi è lui stesso. Delle macerie che si è lasciato alle spalle Mickey è consapevole. Nell’ultima scena del romanzo lo vediamo nel cimitero dove riposano i familiari che prova goffamente a organizzare la sua sepoltura immaginando il giusto epitaffio: “Morris “Mickey” Sabbath, Amato Puttaniere, Seduttore, Sfruttatore di donne, Distruttore della morale, Corruttore della gioventù, Uxoricida, Suicida 1929 – 1994”.
Vero. Lui si confronta con la morte dappertutto: nel New Jersey (dove sono sepolto i suoi genitori) e anche in Massachusetts (dove la sua vera compagna Drenka dorme sotto la terra). Nonostante ciò, Mickey Sabbath non ha un piede nella tomba; è sempre in giro, tra un ricovero e l’altro, una donna e l’altra, fugge anche dalla polizia. Un po’ come una delle sue marionette. Mentre sua moglie cade nella dipendenza dall’alcol e scompare in una terapia senza fine, Mickey non smette di abbracciare la vita, magari all’Inferno: “Meglio che rimanere qui. Tutti quelli che odia stanno qui.”
La lunga carriera di Roth, iniziata nel 1959 con Goodbye, Columbus e conclusasi nel 2010 con Nemesi, la si può dividere in due stagioni: quella “del figlio”, la prima; quella “del padre”, la seconda. Nella stagione “del figlio” Roth interpreta il ruolo forse a lui più congeniale, quello del ribelle. Il giovane Roth si scontra con l’educazione familiare, con l’ipocrisia della società borghese, perfino con la religione ebraica. L’ebraismo di Roth non è mai sereno né identitario, critico piuttosto, spesso conflittuale nella finzione: la blasfemia di Carnovsky manderà su tutte le furie la comunità ebraica di Newark e farà morire di crepacuore il padre di Zuckerman. John, partendo proprio dalla stagione “del figlio” mi vengono in mente soprattutto titoli come Goodbye, Columbus (l’esordio), Quando lei era buona (l’unico romanzo in cui Roth dà voce a una protagonista femminile, Lucy Nelson) e Lamento di Portnoy, il romanzo della consacrazione. È il 1969, siamo in piena rivoluzione sessuale, e Roth delega la sua protesta a un giovanotto stralunato che ci sembra di avere già incontrato. Alex Portnoy è Holden Caulfied adulto. Non trovi, John?
I libri con cui Roth ha iniziato la sua carriera mi interessano meno, anche se sono buoni libri, certo. Il mio primo ricordo è legato a Portnoy, un bella ventata di aria fresca sulla gioventù americana. Per tre quarti un Holden Caulfield adulto, sì, o almeno più cinico, più smaliziato. Poi ho apprezzato altri testi; il racconto degli ebrei americani nell’esercito, “Defender of the Faith,” è stato ogetto di critiche, per me è solo della buona narrativa sul bene e il male. Ricordo che The Great American Novel mi ha fatto ridere tanto; forse è il suo romanzo più divertente. Comunque, al di là di tutto, la cosa importante è lo spirito, in queste storie c’è un’energia creativa che esplode in una eruzione di dettagli. Con Roth anche le cose banali diventano illuminanti.
Nella seconda parte della carriera Roth dà il meglio di sé. Patrimonio (forse l’opera più autobiografica) è un testo cerniera: Roth smette i panni del figlio e diventa padre. Lui che nella vita non ha avuto figli, diventa padre nella letteratura. Arrivano i libri migliori: Il teatro di Sabbath, Pastorale Americana, La macchia umana. Concentriamoci però su Pastorale. Nell’anno in cui Roth lo pubblica, negli Stati Uniti escono altri due capolavori: Underworld di DeLillo e Mason & Dixon di Pynchon. Pochi mesi prima, nel 1996, FightClub di Chuck Palahniuk, L’atlante di William Vollmann, Infinite Jest di David Foster Wallace. Nel 1998 Pastorale Americana si aggiudica il Pulitzer. A Roth a questo punto manca solo il Nobel. Lo meriterebbe ma a scombinare i piani è Leaving a Doll’s House, il memoir di Claire Bloom che spara a zero sull’ex marito facendo a pezzi la sua immagine di uomo e di scrittore. Roth misogino e sessuomane? La stessa malevolenza toccò anche John Updike (“un pene con un grosso vocabolario” disse di lui David Foster Wallace). Perché Pastorale Americana è il Grande Romanzo Americano è presto detto: contiene tutti gli ingredienti del GRA. Sono tre o quattro, non di più. 1) Il sogno. Seymour Levov, il protagonista del romanzo, eredita dal padre una fabbrichetta di guanti di pelle e la trasforma in una grossa azienda. Seymour può dirsi un uomo di successo. Seymour ha svoltato, ha realizzato l’american dream. 2) Il mito della forza e della bellezza. Seymour è alto, biondo, con gli occhi azzurri. Lo chiamano lo svedese per via di quell’aspetto nordico. Non solo. Seymour ha sposato una donna bellissima, aspirante miss America, già miss New Jersey. Da studente, Saymour eccelle in tutte le discipline sportive, i suoi primati fanno esultare il quartiere ebraico dove abita e dimenticare perfino la guerra. 3) Il conflitto generazionale. Nella ricostruzione immaginaria di Zukerman, Merry, la prima figlia di Seymour, è una ragazza introversa e scontrosa per via di una fastidiosa balbuzie. Il disagio di Merry si trasforma in frustrazione poi in rabbia, infine esploderà nel gesto clamoroso che cambierà direzione alla storia.
Proprio così, Angelo, i conflitti di Pastorale sono una foto perfetta di una certa società americana. I conflitti dei Levov sono intimamente legati ai grandi movimenti per i diritti civili degli anni Sessanta e Settanta (femminismo, pacifismo, le grandi questioni degli afro-americani eccetera). In altre parole, il titolo è molto ironico: questa pezzo d’arte non è per niente “pastorale.” Aggiungerei che Pastorale è uno dei romanzi più seri e realistici (classici) di Roth. Lo sviluppo del dramma non sfreccia sempre agli estremi, come in Sabbath. Impossible non percepire la differenza tra Pastorale e Mason & Dixon di Pynchon. Per quanto riguarda Underworld (anche questo è un libro tremendo, senza dubbio), DeLillo gioca tanto con i tempi, con le epoche, nella sua narrativa, dal 1951 al futuro.
Ai tre ingredienti che prima ho indicato in Pastorale Americana, andrebbe aggiunto un quarto. È un ingrediente presente in ogni libro di Roth. Il suo tocco magico. Mi spiego meglio. Per tutta la vita Roth non ha fatto altro che raccontare se stesso, simulando e dissimulando la verità. Mascherandosi. Come tutti i grandi romanzieri, Roth ha tradotto in inchiostro la propria esistenza. Scrivi di quello che sai. Il gioco di specchi tra verità e finzione, che raggiunge il suo culmine ne IFatti, in Pastorale non tocca il fondo ma il doppiofondo: la storia del romanzo è sì un’invenzione di Roth ma dentro la storia di Roth c’è quella di Zuckerman. Pastorale è una gigantesca allegoria, i Levov sono come l’America, vuole dirci l’autore, che mostra la parte migliore di sé e nasconde la polvere sotto il tappeto. “L’America non è mai stata innocente” scrive Ellroy nell’incipit di American Tabloid. Neppure i Levov lo sono. Non c’è lieto fine né consolazione nelle ultime battute, i Levovsprofondano nell’abisso, i lettori assistono inermi, attoniti, quasi intimoriti. Philip Roth ci getta nel caos. Non è a questo che serve la letteratura, John?
Assolutamente sì, lo dicevo prima.
Voglio concludere ritornando sull’onda moralistica che si è abbattuta a un certo punto sulla vita e la carriera di Philip Roth, macchiando (secondo alcuni) la sua immagine di scrittore. Roth è stato uno dei primi bersagli della Woke Culture: ripulitura anche di vecchi testi da termini che possono risultare offensivi e razzisti; censura di qualunque forma di appropriazione culturale; valorizzazione pro-quota (e quindi al di là dei più equi parametri metitocratici) delle donne. John, l’America è ancora un paese libero?
In pochi parole, sì: gli Stati Uniti sono ancora un paese libero — nello stesso senso in cui anche l’Italia è libera. Cioè, ci sono sempre pressioni di vari tipi, contro la libertà di stampa, per esempio (ho scritto di questo nel mio Talking Heads: 77), e anche nell’arte in generale. Roth è stato uno degli autori più attaccati, senza dubbio, come hai spiegato tu. Nonostante ciò, conserva una grossa reputazione. Non dimentichiamoci che nella sua carriera ha ricevuto premi e riconoscimenti prestigiosi. Ancora oggi, tu, io e tanti altri, continuiamo a leggerlo e ad esplorare la sua opera con attenzione. Insomma, esiste ancora la meritocrazia, anche se i tempi e le sensibilità cambiano. Pensa per esempio al caso di Kamala Harris, che ha vinto un’elezione dopo l’altra, misurandosi con un elettorato diversificato. Ma bando alla politica, concentriamoci sulla letteratura. Ho già menzionato Toni Morrison, per esempio; il suo successo non è fondato sul colore della pelle né sull’appartenenza a un certo mood, ma sull’enorme talento. Piu recentemente potremmo citare il caso di Percival Everett e del suo nuovo romanzo James, di cui hai scritto su Telegraph Avenue. Come il buon James, lo schiavo Jim, lotta per la sua libertà, i bei romanzi di Roth ci ispirano e ci aiutano a combattere contro le avversità. È solo una mia suggestione, un sogno? D’accordo, ma è un sogno con cui posso ancora vivere e fare del mio meglio.
Angelo Cennamo
Il link all’intervista su Telegraph Avenue: https://tinyurl.com/yc2ybfmm
A metà degli anni ’70 Davide, un ragazzino di dieci anni, vive una vita nettamente divisa in due: da un lato ci sono i mesi dell’anno nella sua casa di Cagliari, rione San Michele, dove vivono famiglie di bassa estrazione sociale e dove regnano i bulli di quartiere; dall’altro l’estate, che la famiglia di Davide trascorre in campeggio a Cala Cipolla, un luogo selvaggio e incantato dove il ragazzo è felice nella libertà più totale e nella fusione col mare, il suo elemento. Davide è un ragazzino pieno di rabbia, e lo è perché non sopporta il quartiere di San Michele dove è costretto a vivere per la maggior parte dell’anno, ma anche perché la rabbia è una caratteristica che gli elementi maschili della sua famiglia si tramandano di padre in figlio. Ai primi del Novecento la famiglia Contu è una delle più importanti di Cagliari: il cavalier Leonardo Contu, trisnonno di Davide, è un imprenditore di successo e il segno più evidente di quel successo è il bellissimo attico in cui vive, in uno dei palazzi di via Roma, proprio sopra il caffè Torino, dalle cui finestre si gode una vista spettacolare. Poi si sa come vanno queste famiglie: man mano che le generazioni si succedono le capacità imprenditoriali si annacquano e la fortuna inizia a calare. Così il padre di Davide non ha più nulla dell’antica ricchezza e del prestigio della famiglia. Andando avanti e indietro da una generazione all’altra, il romanzo racconta non solo la storia di una famiglia, ma anche quella di Cagliari e dell’Italia del Novecento in un affresco suggestivo. Crescendo, Davide trova la sua strada e riesce a far luce su alcune vicende familiari e a chiarire il perché dei difficili rapporti che hanno legato suo padre ai propri genitori: in questo modo può svelare il segreto della rabbia che ha corroso la sua famiglia e che ha rischiato di tagliare le gambe anche a lui; con l’aiuto della madre, una donna saggia e generosa, impara a capire e a perdonare.
Marisa Salabelle
Il link alla recensione su MasticadoresItalia: https://tinyurl.com/4m22444a