Davide ha sempre trovato suo padre bellissimo. Anche oggi, quando pensa a lui in quell’estate del 1987, lo ricorda così, bellissimo nei suoi quarantasette anni. Sin da piccolo, l’ha amato di un amore incondizionato. Da bambino, adorava ricevere i suoi baci che pungevano; con quella sua pelle ruvida di barba ispida. Quando si guarda allo specchio, adesso che anche lui ha compiuto quarantasette anni, non riesce a scorgere nulla della bellezza di suo padre, né i suoi profondi occhi neri né tantomeno le sue gambe robuste. Si ritrova gli occhi di quel marrone che non dice niente e con le gambe lunghe e sottili, entrambi ereditati da sua madre. Sua madre che, alla prima occasione, schifava sempre l’aspetto di suo marito Osvaldo, considerando difetto ciò che Davide invece ha sempre trovato adorabile, come l’eccessivo spazio tra gli incisivi e la fossetta sul mento. Ma quello che lei più detestava erano i capelli del marito, neri come gli occhi ma ormai sempre più radi. Quell’estate, suo padre decide di tagliarli cortissimi. Di ritorno a casa, allo sguardo perplesso della moglie, con il suo adorabile accento argentino risponde che tanto sta arrivando il caldo e così sta più fresco. E il caldo sarebbe arrivato, così come gli esami di terza media. Davide a scuola ha sempre fatto schifo, non come suo fratello più piccolo, Mauro, che è sempre andato bene in tutte le materie. Anche in disegno è sempre stato una patacca. Solo una volta, gli è riuscito di disegnare bene una Lady Oscar a cavallo. Papà aveva accennato un sorriso, la Giuseppina – l’amica della mamma, costantemente e fastidiosamente presente a casa loro, ha esclamato “ma che bravo!”. Ma quel piccolo momento di gloria, Mauro lo guasta subito: “Non lo vedete che ha usato la carta copiativa?” Sguardi di biasimo. Davide minaccia Mauro di dargli uno schiaffo, ma entrambi sanno che non lo farà mai. Davide proteggerà sempre suo fratello Mauro, e l’avrebbe fatto anche in quell’estate dell’87. Un’estate sbagliata, che aprirà loro le porte a un abisso di eventi inenarrabili e a conseguenze di vita irreversibili… Cantico dell’abisso è un romanzo dal ritmo agile e incalzante, breve ma dal contenuto assai denso. Il libro di Ariase Barretta si pone infatti come una lettura cruda, corporale e a tratti profondamente disturbante. Il fulcro della narrazione è infatti la disamina – obiettiva senza filtri e senza censure – del protagonista Davide che ripercorre con la memoria gli eventi accorsi in quell’estate emiliana di fine anni Ottanta – farcita di canzoni di Cindy Lauper, Candy Candy e cubo di Rubik – eventi che hanno profondamente segnato la sua esistenza e, ancor più profondamente, quella di suo fratello. Sin dall’incipit, il lettore comprende che il tema centrale del romanzo sarà il complesso edipico del protagonista Davide. Ora, essendo tale complesso generalmente attribuito alle figlie femmine, ne consegue che il trasporto di Davide verso la figura paterna sia lo specchio del suo orientamento e della sua identità sessuale. Ed è proprio in quest’estate che il ragazzo inizia a comprendere i propri impulsi e a interfacciarsi con la sua corporeità. Se questi momenti costituiscono quella delicata e propedeutica fase, indispensabile alla formazione di un sé futuro e solido, per Davide il tutto sarà distorto da due figure genitoriali erronee: in primo luogo, da un padre malato, fautore di azioni indicibili e primo oggetto d’amore del protagonista, e in secondo luogo da una madre emotivamente (e poi fisicamente) distante, invischiata in un’amicizia ambigua, unica valvola di sfogo alla sua vita familiare di facciata. Cantico dell’abisso è il racconto di un’orfanezza di spirito, di un amore eccessivo e malato, di limiti che una volta superati, non possono fare altro che lasciare una voragine – anzi un abisso di dolore – nell’animo umano.