“Cantico dell’abisso” su Fimmina che legge
“Cantico dell’abisso” di Ariase Barretta (edito Arkadia, pubblicato nella collana Sidekar) è un romanzo disturbante. Lo è perché racconta orrori e tabù con un linguaggio liquido che si lascia bere- all’inizio almeno- senza inciampi; come quando in preda all’arsura d’agosto si sente la necessità di un qualsiasi refrigerio pur di soddisfare quel bisogno fisico impellente, incuranti se la pozione ingerita sia calda, fredda o tossica. Si beve e basta, lasciando al corpo e alla mente, la reazione di causa e effetto di quel gesto (proprio come accade ad Alice in “Alice nel paese delle meraviglie” di Lewis Carroll). Il romanzo è ambientato a Bologna, si svolge in un arco temporale di circa vent’anni che inizia nell’estate dell’87. Il contesto familiare raccontato è apparentemente normale, come tanti: padre operaio, madre infermiera, due figli ancora troppo piccoli per essere definiti adolescenti, e una colf. Tutti, però, sottopelle nascondono brame e inquietudini, pronti a esplodere. La storia di Davide, all’epoca tredicenne, comincia come fosse un cartone animato a colori e esattamente come altri ragazzi della sua età, frequenta la scuola senza provarne una particolare attrazione, mentre il fratello Mauro, più piccolo di tre anni, al contrario sembra esserne attratto, motivo per il quale riceve elogi e attenzioni da parte di genitori e insegnanti, e un atteggiamento di sfida e invidia da parte del fratello maggiore, in continua competizione con lui. Davide è ingenuo, un sognatore, un idealista con la testa tra le nuvole; spesso la sua realtà si confonde con il mondo fatato costruito dalla mente, legge i giornalini Cioè, ama la musica di Madonna e Cindy Lauper, gli piace travestirsi e nutre una profonda, erotica attrazione per il padre dal quale vorrebbe più affetto di quante non ne riceva, (in riferimento a Davide si potrebbe parlare di complesso di Elettra, ma non avendo competenze psichiatriche in merito mi limito solo ad accennare alla questione). La situazione familiare precipita quell’estate dell’87 quando, dopo l’ennesimo litigio, i genitori di Davide e Mauro decidono di trascorrere le vacanze separatamente. I fratelli seguiranno il padre in una casa di Bologna dove i desideri incauti di Davide avranno un risvolto ambiguo. In quell’angolo bolognese di inferno e paradiso, le giornate si consumano in preda a orrori incestuosi. Il padre è un uomo malato, un pervertito che abusa dei figli e li sottomette promettendo in cambio pizza, gelati e televisione senza orari. La casa delle tanto agognate vacanze si trasforma in un’abbazia di Thelema degli orrori, di cui Dio ha dimenticato l’esistenza o, proprio come la madre, ha voltato le spalle per non vedere. E se per Davide quelli trascorsi con il padre sono attimi di euforia in cui si convince perfino di voler essere “sua moglie”, per Mauro quella vacanza sarà l’inizio di un delirio personale, la nascita delle sue inquietudini. E la madre? Profondamente anaffettiva, Rachele (nome biblico che vuol dire pecorella) ha deciso di sposarsi solo per salvare le apparenze borghesi. Di famiglia benestante, la donna è profondamente insoddisfatta del proprio lavoro che tende a distorcere nelle discussioni, ingigantendo le mansioni che ricopre in reparto. Si intuisce l’attrazione per Giuseppina, la colf, forse ex suora, forse omosessuale, rigida come un palo della luce, sadica, frustrata e vendicativa, terribilmente odiosa. «La Giuseppina» come viene chiamata nel romanzo, è probabilmente il personaggio più respingente (e, a mio parere, proprio per questo uno dei più interessanti) del libro, capace di qualsiasi bassezza. Come suggerisce il titolo, il libro è una discesa nell’abisso più nero dei sentimenti umani, un rotolamento nell’inferno delle storie più squamose, tuttavia purtroppo vere, raccontate con un sorprendente linguaggio ironico e a tratti quasi favolistico. Il lettore osserva la storia dal punto di vista di Davide (nome biblico che vuol dire “Dio ha amato”. Interessante appare infatti la scelta dei nomi dei personaggi), un ragazzo dalla purezza disarmante, un Idiota dostoevskiano capace di amare incondizionatamente. E proprio per questa sua assoluta naturalezza (mai sentiremo il ragazzo provare sentimenti negativi, se non per infantili gelosie) disposto a tutto pur di ricevere quell’amore, le attenzioni che tanto brama. L’indagine dell’animo umano, del sottosuolo o dell’abisso, si sperimenta con un linguaggio incredibilmente elegante e sofisticato, dalla sporca naturalezza, osato in questi termini forse solo nei Demoni di Feodor Dostoevskij e qualche altro classico; per questo a mio parere “Cantico dell’abisso” potrebbe già esserlo, un classico. Di libri così perfettamente disturbanti, sui quali si inciampa, di storie dalla lama sottile capaci di tenere incollato il lettore alle pagine, lasciarlo ridere e soffocare allo stesso tempo, farlo e pezzi e riportarlo a galla, restituirlo alla vita dopo il caos dell’inferno, solo pochi, che io ricordi, ne sono capaci, (specialmente oggi); tra tutti dicevo I “Demoni” e, forse, anche “La sinfonia pastorale” di André Gide, un premio Nobel per intenderci.
Il link alla recensione su Fimmina che legge: https://bit.ly/3F5Y7cT