Cantico dell’abisso
DAVIDE
Com’era bello mio padre quell’estate dell’87.
Aveva appena compiuto quarantatré anni, tanti quanti ne ho io adesso; eppure, nel corso della mia vita, guardando la mia immagine allo specchio, non ho mai potuto scorgere nulla in me della sua bellezza. Le mie gambe. Oddio, mi sono sempre sembrate orribili. Così sottili, se paragonate alle sue. Più lunghe, questo è vero, e forse qualcuno lo trova un pregio, ma non io. Mia madre, lei sì. Le hai prese da me, figlio mio. Lo diceva spesso. Certo, io le avevo così quando ero una ragazzina. Poi mi sono irrobustita. Ma non sono mica grassa, eh! Attenzione. Sono gonfia. Ritenzione idrica. A causa dello stress. I nervi. Il troppo lavoro. Comunque è così che devono essere, lunghe e sottili, non come quelle di tuo padre. Corte! Tozze! E poi tutti quei peli, che schifo! Meno male che tu non ne hai neanche uno. E gli occhi? Così profondi, i suoi, neri: in barba a chi dice che gli occhi neri non esistono. Esistono eccome! Lui li aveva. E io, invece, con quel colore marrone che non sa di niente. Eppure mia madre li ha azzurri. Potevo ereditare almeno quello? Niente da fare. I denti. Sì, quelli sono i suoi: della mamma, intendo dire. Con la gengiva troppo alta e una pericolosa tendenza alla piorrea. Non che quelli di papà fossero perfetti. Eppure io adoravo quello spazio eccessivo tra i due incisivi centrali. Se ne vergognava, che stupido! E la sua fossetta sul mento. Un altro difetto, secondo la mamma. Un’altra delle mie gioie. Vedo la mia mano piccola allungarsi verso il suo viso e accarezzare quella pelle ruvida, di barba ispida, di quelle barbe fitte fitte che le radi e dopo due secondi i peli spuntano già di nuovo. E il mio dito indice che cerca la fossetta sul suo mento. I baci di papà pungevano, da far male. Ma a me piacevano così. E la mamma sempre a rimproverarlo. Santiddio, quanto fai schifo con quella barba! Ma non te la sei fatta stamattina? Ma il peggio per lei erano i suoi capelli: quei pochi che gli rimanevano, neri come gli occhi. Ne perdeva tanti, ogni giorno di più, e lei glielo faceva notare con cattiveria, per prenderlo in giro. Proprio quell’estate li aveva tagliati cortissimi, su suggerimento di un barbiere di Benevento, Don Salvatore, un omone con dei grossi baffi bianchi, anzi giallastri di nicotina, che aveva aperto il suo salone a Sasso Marconi un anno prima. Stammi a sentire, Osvaldo, gli aveva detto, qui c’è poco da fare, ormai siamo amici e io devo dirti la verità. Non farti fregare da lozioni, creme e altre fetenzie che non servono a niente e ti fanno buttare solo i soldi. I capelli sono come il tempo. Una volta perduti non ritornano. Per rinforzarli si può fare una sola cosa: tagliarli. Ma scusa, quello è logico: secondo te cos’è più robusto? Un palo lungo o un palo corto? Il palo corto, ovviamente. Lo stesso succede con i capelli. E via! Papà era uscito dal salone con una testa tonda e scura come quella di un militare: i capelli cortissimi, non più lunghi della barba, tagliati con una vecchia macchinetta manuale. E di fronte alla perplessità della mamma gli avevo sentito dire con il suo adorabile accento argentino: tra un po’ arriva il caldo, così sto più fresco. Lei aveva storto il viso come suo solito ed era tornata alle sue faccende. Non prima di avergli raccomandato di fare questa e quell’altra cosa. E subito! Perché era stanca di aspettare sempre i suoi comodi.