“Bruciati vivi” su Gli Amanti dei Libri
Bruciati vivi – Daniela Stallo
Adesso, mentre guardo i colleghi riuniti alle dodici per un Collegio dei Docenti urgente, adesso che li guardo da una delle ultime sedie, spalmati nei posti avanti, realizzo che esistono due gruppi di insegnanti, quelli buoni e quelli cattivi, quelli che ci credono e quelli che no, e mi chiedo come ho fatto a passare in quelli che no, e quando è successo. Quando ho smesso di lottare e ho iniziato a fare le cose perché dovevo. Quando ho smesso di fare le cose e ho contato i minuti che mancavano alla fine della lezione, e poi quando ho smesso di fare le cose e ho imparato a duplicarle nei ricordi, a fare copie integrali di ciò che ero stata, copie di discorsi, di compiti, di emozioni che non provavo e dovevo cercare altrove.
Bruciati vivi di Daniela Stallo, tarantina, docente di scuola secondaria a Pisa, è il diario di una sconfitta che riflette il tracollo di un’intera nazione in fatto di speranza educativa. Il presente di una donna precipita in un gorgo di freddo rancore. Il suo dramma è lo specchio di anni disastrati. Luisa Marinai vive in un’imprecisata località dell’immediato entroterra, un crocevia di non luoghi, un livido interregno a una ventina di chilometri dal mare. Luisa, ultracinquantenne, da circa un trentennio insegna Diritto. A partire dal dodici settembre, l’ennesimo primo giorno di scuola, Luisa racconta il suo inferno, affidandosi a pagine segrete. Una minuziosa, dolente cronaca quotidiana restituisce il quadro di una mortificazione umana e professionale estranea a qualunque ipotesi di redenzione. Nessuno avverte il suo malessere, nessuno sa ciò che Luisa medita, escogita, compie. L’autrice, ispirata a reali storie da lei raccolte e corroborata dalla sua personale esperienza sul campo, inanella, granello dopo granello, il rosario di frustrazioni dell’insegnante medio dell’inizio del terzo millennio, il suo calvario nelle aule scolastiche prima dell’avvento della pandemia, flagello globale che, quantomeno nel nostro Paese, ha peggiorato una situazione già compromessa. L’esibizione di atrocità antropologiche fotografa il mostro della porta accanto, il mediocre che fa orrore, pur non avendo nulla di manifestamente grottesco: studenti indifferenti e ingestibili, colleghi attaccati a miserevoli piccinerie, genitori strafottenti e stizzosi, relazioni interpersonali ammantate da invidie, gelosie e rancori invincibili. L’insoddisfazione è un fiume gonfiato da molti affluenti, compresa la vergognosa incuria delle aule deputate alla docenza, cui si aggiunge la costante percezione di distacco delle istituzioni. Luisa si sveglia e un suono simile all’incedere di un uragano le martella le tempie. È l’introduzione alla sua via crucis giornaliera tra le tappe del disincanto. La demoralizzazione è un libro dai capitoli prestampati, una liturgia reiterata fino allo sfinimento. Sulla striscia di asfalto si rinnova ogni mattina un affronto rituale, un inseguimento (vero? presunto?) ai danni della vittima designata, Luisa. Una Golf blu spunta da una curva e si incolla, veloce e famelica, alla sua utilitaria. Chi è il tizio dagli occhi di cristallo alla guida? Cosa vuole dimostrare? La scuola, incubatrice di dispiaceri che nessun balsamo può lenire, pullula di maschere deformate, volti stanchi, corpi sfibrati dall’abbrutimento morale. Leonella, l’anziana vicepreside, le riserva occhiate d’odio. L’altra insegnante di Diritto, la “tedesca”, ricava dall’affetto degli studenti argomenti per essere stupidamente felice. L’uomodirigente (scritto così, a segnalarne la monodimensionalità) è un’entità distratta, virtuale. Intanto, un uomomacchia (come sopra), un senzatetto nei confronti del quale Luisa prova una morbosa curiosità mista a un paradossale senso di vicinanza, si aggira nei pressi di un vecchio frigorifero Sanson, totem innalzato al degrado. Il malcontento di Luisa cresce a contatto col prossimo. Cos’è peggio? L’imperturbabile ignavia degli studenti, immersi negli schermi liquidi dei cellulari, sordi e ciechi ad ogni minima sollecitazione? Oppure l’inedia del personale amministrativo, un ceto di burocrati, una stirpe di autoreferenziali mandarini scollati dalla vera missione scolastica? O ancora lo sgusciare silenzioso, umbratile, del preside tra le pareti dell’istituto, a schivare scientificamente il minimo sguardo? Inutile darsi malata, inutile traccheggiare con la complicità dei mal di testa, dei dolori di stomaco, delle nausee (sintomi del burn out, sindrome che brucia vivi), inutile, se non patetico, tentare il colpo di dadi di una nuova assegnazione, di un avvicinamento, mattinate spese a scrivere e-mail già impregnate di beffa. Luisa ha un’idea, un’operazione minima e potenzialmente scardinante, imbastita su una domanda agitata nell’aria tra una campanella e l’altra, sentinella di appetiti e desideri, amo gettato alle ambizioni taciute dai colleghi: che cosa vorresti cambiasse nel tuo lavoro per essere felice? Le risposte, talvolta ripetitive, sempre terribilmente prosaiche e livellate su un orizzonte egoistico (più soldi, una sede vicina, un orario migliore), compongono un elenco, un cahier de doléances, il breviario laico di una preghiera collettiva elevata al dio del nostro scontento. Nostro, perché il fallimento della scuola è un colpo inferto alla possibilità stessa della civiltà. Come suggeriva Philip K. Dick nelle sue riflessioni sull’angoscia che pervade il contemporaneo, la paranoia esplode nel momento in cui si pensa che non solo le persone, ma perfino gli oggetti mostrino aperta e inequivocabile avversione… Luisa è una spugna che assorbe la trascuratezza degli oggetti, nota ontologica che avvolge tutto, caloriferi, muri, banchi, finestre, lavagne, computer. Il tempo trascorso nel ventre di balena dell’istituto è una sensazione di morte sospesa, un’apnea in un oceano oscuro. L’insapore monotonia del vissuto alimenta un astio ferino. Dal seme del disagio fiorisce una cupa psicosi, tipica di chi non sa mediare tra impulsi e senso etico, tra istinto e realtà. L’adozione della forma letteraria del diario acuisce la frizione tra la parola non detta e il sentimento di dolore gelosamente celato. La protagonista macera dentro di sé una sofferenza privata che si spalanca, a mo’ di ferita, sulla sfera pubblica assente. Il risentimento di Luisa confluisce, con sconcertante naturalezza, nella pulsione omicida. Luisa agisce una maledetta domenica, diafano interstizio tra gli impegni lavorativi, inutile pausa da routine alienanti. Avida consumatrice di gialli televisivi, la donna non sbaglia, non lascia tracce, non offre indizi agli investigatori e trascorre le settimane successive al delitto in un regime di gelida apatia, al di sopra di ogni sospetto, adepta di un male banale, meccanico, nella sua accezione squisitamente arendtiana. Daniela Stallo non fa sconti nemmeno alla famiglia. Il marito di Luisa ha una ferramenta. A Luisa piace affondare mani e avambracci tra le viti. Un excursus tattile nel reame del freddo, del ruvido, dell’appuntito, l’unica modalità esperienziale che le permette di stabilire un contatto con l’universo di Thomas, un uomo distante, a tratti invisibile e piegato dalla malasorte. Il ritorno a casa di Luisa è anticipato da una fase di decompressione. Luisa resta in auto, ferma, nel parcheggio condominiale, occhi fissi al balcone. Il dialogo tra i due si riduce ai minimi termini e le ore del giorno si traducono in schemi difensivi, appuntamenti sclerotizzati, pasti disadorni. Il figlio Lorenzo, per ragioni di studio, è andato lontano, a Providence, in America, presso i nonni paterni. Ai suoi genitori, ex docenti piccolo-borghesi ossessionati dal risparmio, Luisa addossa la colpa delle sue sventurate scelte professionali. Poi, accade qualcosa, una pesca miracolosa, un invito a infrangere le regole. Il proibito tenta Luisa. Liliana, unica amica, potrebbe darle un consiglio. Però… Però un involontario panegirico di Liliana spinge Luisa a compiere una scelta giusta e perdente, parole che sfiorano valori dimenticati e dissanguati, legalità, dedizione e dovere, comunque alla base delle materie da lei insegnate. L’illusione del facile affrancamento dal bisogno, accarezzata con ingenuità, evapora. Il dover essere impicca l’essere alla sua corda e Luisa corre a precipizio verso il sacrificio di sé. In un colloquio con il filosofo Michel Foucault, il regista Werner Schroeter disse che guardare la morte dritta negli occhi è un sentimento anarchico che rappresenta un pericolo per la società attuale. Nella dissoluzione si svela l’ultima e definitiva contraddizione. Daniela Stallo spinge all’estremo il discorso sulla crisi della scuola. L’antica paideia è qui un’illusione giunta al tramonto. Nessun altro rumore nella testa, pensa sollevata Luisa, davanti al mare in una sera d’estate. Solo all’ultimo istante, tremendo e meraviglioso, compare il silenzio.
Alessandro Vergari
Il link alla recensione su Gli Amanti dei Libri: https://bit.ly/3qGYymo