“Ballata di eretici e marinai” su SoloLibri
Ballata di eretici e marinai di Fabio Forma, Michele Piras
Arkadia Editore, 2022 – Romanzo cupo-riflessivo, prodotto a quattro mani da due imprenditori sardi, uno anche scrittore, l’altro politico ed ex parlamentare, legati da una stretta affinità specie con il paese comune, Borore, nel Nuorese.
Nicola, Fabio ed altri, ognuno fatto a modo suo, chi sconfitto dalla vita, qualcuno “tiriamo avanti e chi se ne frega” sono i protagonisti del romanzo Ballata di eretici e marinai, di Fabio Forma e Michele Piras, Edizioni Arkadia (Cagliari, settembre 2022, collana“ Narratori Eclypse”, 133 pagine). Forma è imprenditore e scrittore, Piras imprenditore e politico, uno scrive da tempo, l’altro esordisce: due firme, ma quasi un solo autore per la stretta affinità tra compaesani, legati entrambi a Borore, centro di duemila abitanti in provincia di Nuoro.
Il sito “Sardegna Turismo” lo presenta come un borgo affascinante, il paese delle tombe dei Giganti e del vino più antico del mondo, noto per le aree archeologiche, i vitigni antichissimi, l’intensa devozione, i pani e i dolci tradizionali. Tutto in linea con le secolari consuetudini culturali e gastronomiche di un territorio disseminato di nuraghe e monumenti preistorici, nell’altipiano di Abbasanta, a circa 400 metri d’altitudine.
Si è caratterizzato nei secoli per la poesia estemporanea sarda, che si celebrava in gare d’improvvisazione. Fabio Forma e Michele Piras sono intrisi di cultura locale. Forma, nato nel borgo nel 1986, alterna l’attività di imprenditore a quella narrativa, avviata dieci anni fa: romanzi e racconti. Piras, figlio di bororesi in Germania, è nato a Darmstadt nel 1972. È stato consigliere comunale, segretario regionale del Prc e Sel, deputato dal 2013 al 2018, componente dell’Assemblea parlamentare NATO. Non hanno tanto in comune, eppure hanno legato, pur non essendo uguali. Non lo sono nemmeno i due protagonisti e tuttavia insieme “fanno” il romanzo, un testo non facile, ma non vi sognate di disertare le pagine di questo romanzo a due mani, nato fortuitamente, “come accidentalmente nascono le amicizie”, dicono.
Scriverlo ha maturato una sintonia, nei confronti aperti tra due sardi per alcuni versi molto simili, per altri niente affatto, ma le differenze hanno alimentato un arricchimento reciproco e sono state fonte di ispirazione. Nei ringraziamenti, non dimenticano il loro paese, senza il quale probabilmente non si sarebbero mai incontrati e non sarebbero stati quelli che sono, “perché Borore è in tanti dei loro racconti”. Una narrazione concentrata in poche ore in un paesino sardo: Che si crede città, in perenne conflitto con i vicini dai quali lo dividono un palmo di strada, trentaquattro muretti a secco, tre semafori, una casa condivisa, metà sul suolo di uno, metà dell’altro. Ottomila abitanti scarsi, che in assenza di alternative passano il tempo a detestarsi, per futili motivi.
L’atmosfera è cupa, il grigio è padrone di una terra di mezzo, non mare ma nemmeno montagna. Lampi e boati irregolari: “bestemmie dal cielo”. Piove e fa un freddo cane. Nicola si sente male. Una vita passata a fare a pugni con l’ansia, con la precarietà dell’esistenza, in bilico sul cornicione a guardare giù, a cercare una ragione di quel punto d’approdo. Si affaccia in un locale pubblico, lo scopre molto diverso da quanto ci si aspetterebbe in quella piccola realtà dimenticata. Stranamente, l’interno si presenta bene. Gli arredi, la musica. E la barista. I jeans aderenti incorniciano i fianchi, appena debordanti sopra la cintura.
Entrato, guadagna uno sgabello rivestito in vinile rosso: American Graffiti. Intorno, tanto colore, il soffitto dipinto di fuoco, stampe di fumetti alle pareti, manifesti cinematografici d’epoca, copertine di lp in vinile.
Un cliente ride a sproposito, in modo irritante, “un Bertoldo autoctono, una maschera di carnevale in tempo di Quaresima”, ordina superalcolici, poi esce. Un altro, al bancone, sembra uno tranquillo.
Under sessanta, non è gonfio di birra e condivide il sollievo per l’uscita di scena dello strillone. I loro sguardi s’incrociano. La risata è comune. Piacere, Fulvio.
E io mi chiamo Nicola, tu cosa bevi?
Se in romanzo cercate azione e niente più, non fa per voi – ma non è detto che non vi posso attrarre ugualmente – se invece preferite leggere con calma e riflettere su quanto vi viene proposto, eccolo bello e pronto.
Un microcosmo umano di contorno a due protagonisti. Nicola e Fulvio si annusano, si apprezzano, scambiano pareri profondi sull’esistenza, sul mondo, su quello che non va, sulle persone.
Eccole, le persone. Bortolo, manichino umano che ride sguaiatamente, parla a sproposito e beve liquori dozzinali, sempre eccessivo, fuori luogo, fuori tempo. Marlene, la barista che non ti aspetti in quel posto, frangetta impertinente, capelli rosso fuoco, occhi da cerbiatta, viso dolce ma deciso, di un angelo caduto e riabilitato.
Il suo compagno, Filippo, esatto opposto. Casa e chiesa, laureato a pieni voti in una università quotata, carriera già scritta nel certificato di nascita. Uno col padre sempre appresso, a progettare vacanze studio, futuri imprenditoriali, investimenti in Borsa, a discutere sulla macchina nuova, adatta alla sua condizione sociale.
La mamma gli stira anche i calzini e i boxer, lo guarda con amore incondizionato, rivedendo nel figlio il principe azzurro dei suoi sogni di bambina, che immagina sposo tra veli bianchi e paggetti, con la figlia del medico.
Svetlana, bionda statuaria partita cinque anni fa da Omsk. Una tante ragazze arrivate portandosi appresso i sogni e lasciando a casa gli incubi, per ritrovarli anche qui.
Felice Laudadio
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