Attila
Reagiva sempre nel modo più stravagante. Solo e sfiduciato, perso nel suo esilio parigino, invece di arrendersi Aliocha Coll aveva scelto di rifugiarsi nella sua ossessione per la scrittura; ne ebbi conferma poche ore dopo l’atterraggio, già in pensiero per le sue condizioni, temendo che fosse impazzito a causa dell’ultimo abbandono subìto quando, dopo averlo cercato da una parte all’altra della città senza rinvenirne alcuna traccia, lo trovai finalmente nelle vaste distese del parco di Belleville. Fu un ritrovamento fortuito.
Ero arrivato in quell’angolo di panorami privilegiati per caso, cercando di far passare le ore, rassegnato ad attendere l’indomani per cercar di parlare con lui, finché non raggiunsi una collina dove c’erano delle panchine di legno imbrattate di graffiti, mi girai verso destra e riconobbi la sua sagoma tragica e solenne che si stagliava contro gli infiniti tetti di Parigi. Il suo aspetto rivelava che nelle ultime settimane non aveva fatto altro che sprofondare sempre di più nella palude in cui annaspava. Aveva l’aspetto di un compositore ostaggio delle febbri della musica, con le labbra che si muovevano al ritmo di un ritornello che solo lui poteva sentire, i capelli scompigliati dal vento, il corpo attraversato da una strana vibrazione, così assente e offuscato da sembrar indifferente a tutto ciò che lo circondava, concentrato esclusivamente sulla lettura di un foglio di carta che teneva a una certa distanza dal volto. Non c’era modo di capire perché avesse deciso di addentrarsi in un angolo così appartato. Solo quando mi avvicinai e riuscii a sentire l’assurda litania che ripeteva in un sussurro, mi accorsi che accompagnava la lettura con una mano ricurva come un artiglio, e capii che in una sorta di prova teatrale Aliocha stava recitando l’ultimo capitolo del suo romanzo Attila, il libro che aveva iniziato un paio d’anni prima e il cui lungo e caotico procedere di versi impossibili, paragrafi senza senso, avrebbe terminato solo pochi giorni prima di uccidersi.