Aldianoa del nostro scontento
Critici per caso
22 luglio 2016
Aldianoa del nostro scontento
Quando arriva l’ora della nostalgia, non c’è deriva cinica che tenga e che non spinga a portentosi cambi di marcia.
Lo sperimenta Attilio Serra che, con ungarettiana allegria del naufrago, si appresta a ripercorrere le strade della sua giovinezza in cerca di una decodificazione del mondo, capace di dare senso alle azioni proprie e altrui, far chiarezza sui cambiamenti temporali spaziali culturali, (ri)trovare il senso della vita e (ri)connettersi al vissuto collettivo, nel titanico tentativo di tenere a bada gli irascibili e intrattabili dèmoni dell’età che avanza. L’Aldianoa di Mannoni, come la Casarola “inventata dal vero” di Attilio Bertolucci, è depositaria di storie semplici e struggenti, drammatiche e boccaccesche, restituite ai lettori con capacità dialettica e gusto narrativo, strumenti che certo non mancano a Serra e al suo alter ego. Il Libro evoca la disillusa cronaca della sconfitta esistenziale di una società che ha barattato il decor etico ed estetico con un fantasioso abusivismo dettato dalla sguaiatezza nazionale, scheda madre dei nostri condizionamenti e comportamenti più deleteri. Folgorato bambino dal soffio vitale del vento, dal ritmo inesausto del mare, forgiato dal severo empirismo familiare scevro da smancerie, affascinato a vita dai rumors della Piazza, location dei memorabilia paesani, Franco Mannoni, cantore di profumate canestre che davano del tu al vermentino, con il poetico titolo della sua opera prima, prescrive al lettore una sospensione, impone un’ellissi e invita alla riflessione. Omaggia il vento, che pur non essendo quello terrificante che spazzò via Macondo dalla faccia della terra, è dato identificativo, modellatore di rocce e litorali, agitator di mirti e ginepri, per non parlar di umori e amori. Con rigore distopico lontano dalla stucchevole litania dei bei tempi andati, Serra, cercatore di memorie, esce dalla autoreferenziale bolla della sua esistenza e si riappropia dei luoghi amati: il porto, i costoni rocciosi invasi dalla macchia mediterranea, il mulino a vento, hi-tech d’antan, vestigia della volontà tenace di strappare alla natura energie e nutrimento. E ancora la casa di famiglia con gli echi di rigidità imposte e tenerezze represse, storie lungamente narrate davanti al camino o, in unica alternativa (tertium non datur), al Bar dello Sport, ritrovo privilegiato per i campioni locali della briscola e del biliardo, e, all’occorrenza, persino sala da ballo o punto di ascolto dei primi radiogiornali, che videro nascere tifoserie agguerrite nel nome di Bartali. Via, tutto andato. Nell’attuale (in)felicità benestante, Serra rievoca la calorosa ed allegra epopea di boccaccesche storie, i drammatici destini di molti legati al mare e alla guerra, gli improvvisati latin lovers portatori di accia teresina, le rigidità educative imposte con particolare fermezza alle ragazze, le savonaroliane chiesastiche prediche, i batticuori dettati da fanciulle dai piedi fetish, che leggeri carezzavano porzioni di territorio oggi sacrificate, senza pesi psicologici, all’ossigeno del denaro. Serra non è depositario di innato ottimismo ma, concludendo il suo disincantato amarcord, accende un flashforward di speranza che punta sul sentire semplice dei fanciulli, cui affidare il rispetto di luoghi e memorie per frenare il declino collettivo.