“A pelle scoperta” su Mork Mindy Ork

Silenzi femminili attraverso lo specchio

Ork è un pianeta sufficientemente instabile da non lasciare che le cose si ripetano eternamente allo stesso modo. Ork cerca spazi e libertà, confronti e occasioni di crescita, variazioni possibili di un medesimo tema, sensibilità urticanti, rivelazioni di snodi, stazioni di sblocco, tutto ciò che movimenta, crea correnti di aria, scompiglia le carte, rigenera presunte verità acquisite per sempre. Scrivere di libri non può mai essere solo un esercizio di stile, un consiglio pilotato, un obbligo da adempiere. Deve, l’atto del recensire, portare con sé spirito innovatore, rivolgimento, accostamenti azzardati, fare dialogare autori tanto distanti da indurci a credere che farlo possa essere un atto di violenza, ma violenza è solo nell’esito di una visuale prodotta dall’accostamento fuori norma, insomma quell’alterigia di chi naviga in superficie. Sotto, nel buio dei fondali, non c’è stupore alcuno, ma narrazioni che si sfiorano, raccontano qualcosa che, a tratti, si tocca, lo fanno con silenzi che originano da una fonte differente, una maternità declinata diversamente che genera e nutre creature che porteranno nel mondo la ricchezza e il vuoto dell’amore ricevuto e percepito. E, in fondo, questo è il crinale perfetto offerto dalla lettura di due recenti raccolte di racconti, “A pelle scoperta”, di Francesca Piovesan, edito da Arkadia (Collana SideKar), e “Persone care”, di Vera Giaconi, autrice di origine uruguiana, pubblicato da Sur. Una sorta di apparente azzardo che trae origine non solo dalla forma narrativa scelta dalle due donne, che ne riduce la portata, dell’azzardo, ma da un silenzio che, pur somigliante, qui giunge in un’eco amplificata dentro cui bolle un approccio differente alla scrittura, oltre che alla vita, come è giusto che sia. Anche nell’ottica odierna di Ork: quella di condurli per mano fino a qui. Entrambe le autrici scelgono una modalità narrativa che le pone rispetto al processo creativo come osservatrici anonime distanziate dagli attori e dalle scene quel tanto che basta a lasciare che l’emozione corra, senza invadere, se non con le peculiarità che diremo, lungo i fili di storie intessute di una quotidianità normale dentro cui si muovono corpi con i loro segni, più o meno forti. Sono i corpi in cui lasciare fluire il non detto, “la passione contenuta”, il racconto di qualcosa che è fuori dall’osservatore, perlomeno in un’apparenza salvifica in cui proteggersi dall’onda d’urto del proprio dolore.

Potremmo dire che il silenzio di chi guarda e si fa latore di quelle vicende è una scarnificata presenza dietro le quinte che, nella mancanza di un’identità, osserva, traccia, scrive, ma non diremmo il vero, perché qui il confronto si apre e percorre tragitti diversi. Quello della Piovesan è soprattutto uno sguardo, la capacità di posare gli occhi sui dettagli, sulla materialità delle cose che stanno nell’universo inesploso dei suoi protagonisti, a cui non segue una voce forte, in parte perché è chiaramente una scelta di tono, in parte perché si ha l’impressione che manchi un pezzo, qualcosa che connoti di una maturità ancora di là da venire il timbro ancora indefinito dell’osservatrice. Questo non toglie rilievo alla cura, tutta femminile, con cui l’autrice pare farsi custode di tutto ciò che siamo soliti eliminare e dentro cui c’è l’accesso all’altra faccia della luna, oltre i silenzi, fuori dalle pagine di un libro. Il silenzio della Giaconi è una presenza forte, pur nella decisione di guardare dall’esterno, a distanza: non è uno sguardo, qui è una voce che sceglie di non esserci, ma che scappa dal reticolato imposto dalla neutralità per scheggiare di rosso i corpi delle storie narrate prima ancora di vederne il sangue, come se trapelasse già dai dettagli l’orrore tenuto a freno dalla banalità entro cui rendiamo quotidianità “normale” tutto ciò che sta fuori e destabilizza. Dunque, silenzi di natura e origine diversi. Due donne a confronto che scelgono di fare di un simile impasto di realtà la loro trama narrativa. Questo perché la Piovesan e la Giaconi, nella brevità del racconto, decidono di condurre storie che non hanno in apparenza nulla di speciale che non sia il fatto che in esse è in fondo racchiusa la specialità potenziale dell’individualità di ciascuno. E, se il ritmo narrativo scorre senza alterazioni, nella calma apparente della prima e in forma, a tratti, sinusoidale nella seconda, a ben guardare, la terra su cui posano i loro sismografi ha qualcosa di instabile in entrambe, con esiti diversi. Forse, la ragione principe per cui sono qui oggi, in questo tempo precario e rapido in cui solo fuggendo da ciò che è sotto gli occhi di tutti è possibile rintracciare un qualche accenno di verità, personale, storica, pubblica.

Entrambe le raccolte fanno del corpo un elemento consustanziale alla narrazione, rivelando il dettaglio, che sia la ferita, la bellezza tradita dal tempo o la giovinezza esplosa, che sia il viso, come le spalle abbronzate, i capelli rossi, come l’odore di una madre, che sia la donna giraffa, come l’uomo elefante, tutto è un indicatore di “salute”, la faccia esposta della salvezza, la fine o l’inizio di qualcosa, l’evidenza di una legge naturale dentro la cui inesorabile scadenza siamo tutti, ma anche il fermo immagine su qualcosa che è rimasto a suggellare l’eternità di tutto ciò che non si risolve, non si trasforma, ristagna e rimane nella forma stantia di quello strascico di dolore che si cumula con l’inevitabilità del tempo.

La Piovesan racconta di amori mai nati, eppure vicini e possibili, di solitudini dalle pulsioni inibite, di desideri a cui si è rinunciato e dell’odio verso l’esterno che ne è causa quando non siamo in grado di farci responsabili attori di vite che si chiudono ai margini della bellezza, vera o artistica, racconta di donne fragili in balia di un bisogno che non si riconoscono e del desiderio che ne rivela l’urgenza, di complicità femminili, oltre i percorsi obbligati, fuori dal buio materno, di lampi di vita che esplodono e ci regalano il senso della precarietà e la spinta alla ricerca di un calore che si declini al femminile, senza ingombri, senza pesi, senza contropartite, racconta di quelle donne che nessuno vede e che sono la bellezza della cura del mondo, delle ferite che congiungono vite distanti, di nudità e vergogna, di abitudine al corpo e di corpi soli nel risveglio notturno, di un padre e di una figlia nell’alchimia che allontana le madri che non sanno più ascoltare, che non hanno mai ascoltato, di una madre che decide di farlo con il coraggio dell’età e la benevolenza di chi non ha più nulla da perdere.

La Giaconi racconta di conflitti più o meno esplosi. Pur nella quotidianità che si fa scenario privilegiato dentro cui far muovere gli attori, irrompe nel silenzio con minacce della sua interruzione attraverso la dichiarazione del fallimento neanche tanto celato della famiglia, racconta di sorelle che non sanno parlarsi fino in fondo, di segreti e bugie, di amori traditi e rubati, di padri che riscattano la loro esistenza dal decadimento della loro funzione genitoriale attraverso lo scatto del passaggio successivo di nonni,  di madri che invecchiano, dell’odore di naftalina e sapone e disinfettante in cui è racchiuso il principio di una fine e la vita di uomini che si impone sulle macerie di quella di figli, racconta di conflitti tra padri e madri, di figli che naufragano nel dolore di una ferita per distrarsi dalla tristezza e non piangere, che sovvertono il principio di piacere per stare dentro il conflitto, illusoriamente senza crepe che non siano quelle del corpo, racconta di relazioni simbiotiche e delle ritorsioni di chi non ne ammette la fine se non dentro uno spirito di vendetta, di donne che si fanno carico della fragilità del mondo e di donne che le schiacciano con “innocua” e facile crudeltà, di fratelli e sorelle che si nascondono al buio della loro solitudine e si fanno complici nella lotta contro il lupo dietro la porta di casa.
Ciascuno di noi è, sarà un pezzo delle pagine dell’una o dell’altra. Ci siamo tutti, a ben guardare.
Resta l’evidenza tecnica di due percorsi di scrittura differenti, non solo per predisposizione e per vissuto che deduciamo diversi, ma per una scelta di fondo che, pur partendo da un’assenza che è il silenzio della postazione di chi osserva, si nutre, nell’un caso, dell’impeto dei Paesi del sud, nell’altro, di una linearità ancora in bilico. Se l’emotività non sfocia in alcun angolo che non sia il corpo per scelta stilistica, la prosa deve essere estremamente solida e centrata da consentire di vacillare dentro e cadere fruttuosamente sul dettaglio. Non sfugga all’attento lettore che le due donne si fanno complementari in un gioco a incastri sottile che necessita di un gradino in più. Se la Giaconi rompe a tratti, come già detto, il suo silenzio talvolta con un impeto maschile, dall’altra parte risiede la cura al femminile di chi ripone nelle cose la sacralità di un rito. Aspettiamo conferme e maturità, mentre fuori piove e si affaccia il sole.

Mindy


Arkadia Editore

Arkadia Editore è una realtà nuova che si basa però su professionalità consolidate. Un modo come un altro di conservare attraverso il cambiamento i tratti distintivi di un amore e di una passione che ci contraddistingue da sempre.

P.iva: 03226920928




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