Il caso letterario dell’anno
A
Aprii la porta e mi trovai davanti me stesso.
Era un me stesso più vecchio di una decina d’anni, con le basette brizzolate e le borse sotto gli occhi più accentuate. Per il resto era vestito uguale a me. Uguale a me quando uscivo di casa, intendo, perché a quell’ora ero ancora in mutande.
Ciao, mi disse.
Ciao, risposi.
Vengo dal futuro con un almanacco per vincere le lotterie dei prossimi vent’anni. Così diventerai ricco, e io vivrò da ricco nel futuro.
Piegai la testa di lato.
Non fa un po’ troppo Ritorno al futuro?, chiesi.
Scosse la testa, seccato.
Perché devi essere sempre così cinico? Ti sto dicendo che da domani sarai ricco, fregatene del come e goditi la vita, no?
Arricciai la bocca e allungai la mano verso di lui per toccare la giacca di velluto a coste larghe, la stessa che avevo comprato due settimane prima in un negozio vintage di via San Vitale per trentotto euro.
Vuoi dirmi che fra dieci anni porterò ancora questa giacca?, domandai.
Se non prendi questo almanacco, di certo, rispose lui.
E poi sarei io il cinico, dissi mettendomi le mani in tasca. Poi senza pensarci, ok, e presi l’almanacco. Mi consola che almeno non ingrasserò.
Il mio io futuro sbuffò. Aveva già indossato la faccia di uno che sta per andarsene quando aggiunsi: non è un po’ un buco nella trama che tu sia qui a darmi questo almanacco per vincere le lotterie? Diciamocelo, non sono mai stato un genio delle scienze, quindi dubito che inventerò una macchina del tempo fra dieci anni. E se fra dieci anni sarà una tecnologia diffusa, immagino schiere di uomini del futuro come te che tornano indietro a consegnare a se stessi i numeri della lotteria. E quindi super inflazione di vincitori, e quindi a furia di spartirsi il bottino non resterà niente per nessuno.
Il mio io futuro mi guardò con l’espressione da “il solito guastafeste saputello testadicazzo”. Continuai, solo per il piacere di innervosirlo. Sapevo che alla fine mi sarei tenuto l’almanacco e avrei scommesso su quei numeri.
Mettiamo anche che tu con furbizia ti sia impadronito per primo di questa tecnologia. Immagino che comunque nel futuro successivo al tuo altri l’avranno scoperta e torneranno indietro per fare lo stesso. Magari sono già tornati a un passato più remoto di questo. Magari c’è una polizia intertemporale che si occupa proprio di controllare queste cose. Te lo sei domandato? Vuoi incastrarmi per passare il futuro al fresco e farti mantenere dallo Stato?
Il mio io futuro sbuffò e allungò la mano per riprendersi l’almanacco. Lo nascosi dietro la schiena.
Che fai?, domandai.
Lo riprendo e torno indietro a quando avevamo vent’anni, lavoravamo meno di cervello e se uno ci avesse regalato dei soldi li avremmo accettati senza tutte queste cazzate.
Il corridoio si riempì di silenzio e di postura affranta.
Non ci pensare, dissi allora. Giocherò questi numeri, così tornerai a casa e sarai ricco. Che poi è strana, questa cosa. Non ho mai dato importanza ai soldi. Quand’è che inizierò?
Si cambia tutti, disse lui in tono di amara sconfitta.
Ora ti sembra bello vivere con quel calorifero che salta ogni cinque minuti, passare le notti al freddo con una donna che dimenticherai tre giorni dopo, studiare il fiume in via Piella alla ricerca di ispirazione letteraria. Ma non sarà sempre così. L’inferno borghese si mangia tutto.
L’inferno borghese. Bella espressione, pensai. Il mio io futuro lesse la mia attenzione.
Non serve che te la ricordi. La userai spontaneamente in un libro che non concluderai mai.
La frase mi intristì.
In effetti, se sei qui devo dedurre che non avrò mai successo come scrittore.
Mi guardò con affetto per la prima volta.
Io non l’ho avuto, ma chissà. Ora che diventeremo milionari potremo spedire migliaia di copie a personaggi famosi, e pagarli per farsi fotografare in spiaggia con il nostro libro. Dopo tutto è così che nascono i bestseller. Anzi, portati avanti, così fra un’ora rientrerò al futuro e sarò già famoso, oltre che ricco.
Ma non ho mai sognato di essere famoso. Volevo solo scrivere.
Anche questo cambia.
Giusto. L’inferno borghese, dissi.
Lo vidi sporgersi oltre la mia spalla, alla ricerca dell’angolo di monolocale dove una gamba nuda giaceva addormentata sopra il lenzuolo.
Leila?
Lara, risposi.
Ah sì, Lara grandi tette. Ci andrai a letto un altro paio di volte, poi lei ti chiederà se la cosa possa prendere una qualche direzione e tu risponderai che non credi proprio. Ti sentirai molto sincero e penserai “non sono come tutti quegli stronzi che si fingono bravi ragazzi, io sono proprio stronzo e sono sincero”.
Lo ascoltavo come si ascolta un monologo interiore.
Peccato che tu sia proprio stronzo. E lo sono ancora anch’io, mi sa.
Alle nostre spalle Lara cambiò posizione, roteando sul fianco sinistro. Il calorifero sotto la finestra sbuffò e svenne.
È tutto, direi.
Vuoi un caffè?, domandai senza motivo.
Ti ringrazio, ma il varco dura appena un’ora, e vorrei passare al bar in galleria a comprare un pacchetto di Lucky Strike. Le aboliranno fra cinque anni, e vorrei godermene un paio in piazza XX Settembre, come ai bei tempi.
Annuii. Mi fece venire voglia di accendermene una. Non fumavo sigarette da cinque anni, lui chissà da quanto. Non gli proposi neanche di entrare e fumare con me, un po’ per Lara che probabilmente sarebbe svenuta alla vista del mio io del futuro accanto a me, un po’ perché – conoscendomi – difficilmente il futuro mi avrebbe reso un compagnone. La triste realtà era che il mio io futuro preferiva fumare senza di me.
Aboliranno solo le Lucky Strike?
No, tutte le sigarette.
Le canne, almeno quelle le legalizzeranno?
Sì, le canne sì. Fra un paio d’anni.
Ottimo, no? La notizia mi risvegliò completamente dal sonno. Ero euforico. Finalmente buona qualità a prezzi più bassi.
Con le canne cosa ti importa delle sigarette?
Mi osservò in silenzio, aspettando il mio due più due. Giusto. L’inferno borghese.
Con nervosismo strisciante domandai: scriverò mai un libro migliore di Starbucks?
Mi guardò di nuovo con affetto. O almeno mi sembrò, da sopra i capelli.
No, rispose.
Fantastico. A trent’anni avevo già raggiunto il culmine del mio talento letterario. Pensai che quasi tutti gli scrittori migliori avevano già dato il meglio a quell’età, per poi sputtanarsi fama e soldi in alcol, droga, donne e sperimentazioni postmoderne.
Allungò la mano, gliela strinsi. Mi venne in mente un’ultima cosa.
Senti, ma non era più facile scriversi i numeri vincenti su un quaderno? Questa cosa degli almanacchi, oltre che già vista e poco credibile per uno che viene dal futuro, è pure rischiosa. Metti che lo dimentico in giro e qualcuno legge “pubblicato nel 2031”. Roba che mi uccidono per rubarmelo, oppure mi mettono in galera e tu torni al futuro. E sei in galera. E salta tutto.
Il mio io futuro scosse la testa e si allontanò imprecando.
Che poi abbattete ancora gli alberi per la carta nel futuro? Non avete dei super iPhone con dentro tutto, ricaricabili a energia solare o con il movimento del polso? Un almanacco, figurati.
L’ascensore sprofondò verso il piano terra, sospinto dal vaffanculo del mio io futuro.
B
Lara si svegliò e mi lasciò. O meglio, si svegliò, facemmo colazione con latte e caffè solubile e dei cereali aperti da troppo tempo che mesi prima sarebbero stati gustosi e croccantissimi, mi chiese se la cosa tra noi avrebbe potuto prendere una qualche direzione, le domandai: ma non dovevamo andare a letto un altro paio di volte, prima? Mi guardò come si guarda un alieno sbronzo sui binari del treno, recuperò la sua borsa da finta alternativa sul futon sfondato Ikea e mi lasciò. Io mi lavai i denti e indossai una camicia nera non stirata sotto la giacca The Freewheelin’ Bob Dylan vista pochi minuti prima indosso al mio io fu- turo. Poi scesi le scale e mi incamminai lungo via Gramsci, direzione Antica Bologna.
Unicum?, domandò il barista.
Cercai l’ora. Era quasi mezzogiorno.
Unicum, echeggiai. E una brioche alla marmellata. Mentre il barista versava e afferrava mi spostai nel reparto tabaccheria e chiesi un biglietto della lotteria.
Quale, domandò la tabaccaia.
Bella domanda, pensai. Non sapevo esistessero diverse lotterie. Le chiesi di darmi un attimo, recuperai Unicum e brioche dal bancone e mi sedetti al primo tavolo libero. Quindi aprii l’almanacco.
Per prima cosa realizzai felicemente che l’inglese non avrebbe sostituito tutte le altre lingue: l’almanacco era scritto in italiano e riportava i numeri vincenti delle lotterie per tutto il decennio successivo.
Pensai: fanculo inglese. Fanculo anche a te, esperanto.
Poi il mio entusiasmo patriottico calò. C’erano lotterie dai nomi assurdi, tipo “Milionario Carogna” o “Vuoi smetterla di vivere da fallito?”. La gente del futuro doveva essere proprio spudorata. Ce n’erano centinaia. In un attimo di puro genio pensai di chiedere alla tabaccaia quali fossero quelle che pagavano più soldi e poi scoprire se fossero presenti nell’almanacco.
Puro. Genio.
La lotteria del momento è Mai più pezzenti. Se azzecchi i sei numeri e le quattro lettere iperpotenziatrici vinci un milione al giorno.
Un milione al giorno, pensai.
Mai più pezzenti.
Non era il futuro, a essere spudorato.
Ok, dammi un biglietto, dissi. Feci per sedermi al tavolo, poi mi accorsi che numeri e lettere erano già prestampati sulla schedina. Aprii l’almanacco alla voce Mai più pezzenti e saltai alla data di oggi: non corrispondevano per niente. Non avrei vinto nulla. Tornai dalla tabaccaia.
Puoi darmene una senza numeri e lettere stampati? Vorrei segnarli io.
Mi spiace, ragazzo. Mai più pezzenti funziona così. Tutto prestampato.
Ok, presi atto. Qual è un’altra lotteria dove vinci un sacco e scrivi tu numeri e lettere?
La tabaccaia si voltò e inscenò un’attesa nel triste tentativo di convincermi che non le conoscesse tutte a memoria. Dunque, quelle non prestampate pagano di meno, perché lo stato fa più fatica a controllarle. Metti che tutti si svegliano con una botta di culo, esploderebbe tutto. Comunque ce n’è una che se azzecchi gli otto numeri e le tre figure paga centomila euro al giorno.
Immaginai centomila euro al giorno. Erano comunque tanti.
Ok, le dissi. Vada per quella. Come si chiama? Si chiama Fanculo i poveri.
Interessanti questi nomi, bofonchiai.
Come?
Niente, risposi pagando e tornando al mio tavolo. Vi trovai Boris, il matto del porto, che si scolava il mio Unicum e spargeva glassa di brioche alla marmellata sull’almanacco.
Pubblicato il 12 novembre 2031, cadenzò, viscido. Dammi qui, gli dissi. Mi devi un Unicum, aggiunsi. Boris si alzò e tornò con due Unicum, il secondo per lui e il primo per me. O meglio, il primo + 20% per me, visto che a essere onesti un sorso al precedente l’avevo dato.
Sono i numeri vincenti della lotteria?
Perché dovrei dirtelo, risposi.
Perché altrimenti lo dico a tutti.
Sei il matto del porto. Non ti crede nessuno.
Boris si voltò verso il bancone – come se la voce avesse bisogno di direzione per raggiungere gli uditori – e gridò, Leifur ha un libro del futuro che predice i risultati delle lotterie.
Il barista si voltò verso di noi, lo sguardo eccitato e speranzoso.
Davvero? Divideresti un po’ di quei soldi, Leifur?
Scossi la testa e chiusi il libro, cercando di non sembrare spaventato. Non è facile fare lentamente un’azione e nel contempo pensare qualcosa di non nervoso e credibile su un almanacco venuto dal futuro. Sparai la cosa più credibile e, mi rendo conto, meno creativa. Credi alle cazzate di questo matto?
Gli occhi del barista sembravano incapaci di riaccomodarsi nelle orbite.
Be’, sarà anche matto, ma inventarsi una cosa così non è facile.
Avrà visto Ritorno al futuro 2, risposi.
Sì, ma anche così.
Boris vicino a me sorseggiava il suo Unicum sogghignando. Che non è facile.
Cioè, Leifur, sarai d’accordo con me che non è facile inventarsi una storia simile senza alcun appiglio da cui partire. Se fossimo stati lì a parlare di modi semplici per diventare ricchi, oppure invenzioni che vorremmo nel futuro, capirei. Ma così, insomma. Sarà matto, ma non è un genio.
Boris confermò umilmente, la faccia a mollo nell’Unicum. Lo fissai cercando di fargli esplodere la testa col pensiero, senza successo.
Hai vinto, sbuffai. Andiamocene da qui.
Boris saltò a terra dal tavolo su cui si era seduto, restituendo il bicchiere al bancone. Alle nostre spalle l’effetto doppler si mangiò il barista che gridava: Non serve che paghi gli Unicum, Leifur! Mi pagherai quando vinci! Torna presto!
Boris era alto un metro e cinquanta e aveva un solo ciuffo di capelli al centro della testa. Camminava accanto a me, ma uno spettatore esterno avrebbe dedotto che mi stesse ballando intorno alla ricerca della via più rapida verso il mio portafogli. Nell’insieme ricordava Gollum versione Snorky con varie tonalità da maniaco sessuale in più.
Sarai contento, gli dissi. Ora dobbiamo cambiare bar, altrimenti quelli domani scoprono che ho vinto e vengono a cercarmi a casa.
Non sanno dove abiti.
E se volessi un Unicum?
Cambiamo bar.
E per scommettere su queste lotterie?
Cambiamo bar.
Cambiamo bar, pensai. E quale? Ce n’erano centinaia in città. Non era facile scegliere.
Entrammo al Bar della Pioggia, il barista mi regalò un sorriso da venditore di diamanti porta a porta.
Leifur, gridò entusiasta, allargando le braccia. Gli dovevo almeno venti euro per le sigarette di cinque anni prima, non era mai stato felice di vedermi.
L’ha già saputo, commentò Boris. Uscimmo mentre alle spalle una cassa gracchiante diffondeva il tema di Momenti di gloria.
Ci sono sempre state le casse in quel bar?, domandai a Boris.
Cosa te ne frega, pensiamo a giocare quei numeri. Giusto, convenni. Secondo te quanti altri bar lo sanno già? Cambierei almeno quartiere.
Prendemmo via dei Falegnami e scavalcammo Indipendenza. In via Righi Boris puntò Scout con desiderio e mi chiese cinquanta euro d’anticipo.
Non li ho cinquanta euro, Boris.
Sbuffò in direzione di una pelliccia fucsia.
Vuoi una pelliccia fucsia?
Boris non rispose né cambio espressione.
Non credi che con una pelliccia fucsia penseranno ancora di più che sei matto?
Sbuffò di nuovo e si allontanò un metro e mezzo da me.
Camminammo paralleli a quella distanza e prendemmo via Oberdan.
Ecco qui, disse Boris allora. Era un tabaccaio con una scritta in arabo.
Questo non sa l’italiano, faremo un po’ fatica a spiegargli, ma accetta i biglietti delle lotterie e di sicuro non gli hanno ancora parlato dell’almanacco.
Ottimo, risposi.
Entrammo. Niente casse. Niente Momenti di gloria. Niente clienti. La situazione ideale per una truffa intertemporale. Estrassi l’almanacco e Boris mi diede uno schiaffo sulla nuca. Dovette saltare per colpirmi.
La smetti di tirarlo fuori in pubblico?
Mi massaggiai la testa.
Usciamo, leggiamo i numeri, li impariamo a memoria, poi entriamo e li giochiamo senza dare nell’occhio, ok? Ho un grosso problema di memoria, risposi a bassa voce. L’arabo ci fissava, incuriosito dalla scena, dalla strana coppia, o dal fatto che sembravamo capitati lì senza motivo. Cosa significa che hai un problema di memoria?
Non ricorderò mai otto numeri e tre figure a memoria, risposi. Neanche per dieci secondi.
Boris scosse la testa e mi guidò fuori.
Facciamo così, io ricordo gli otto numeri e tu le tre figure. Pensi di farcela?
Possiamo provarci, risposi. Ci appiattimmo contro il muro per non essere travolti dai carrelli dei pakistani. Aprii l’almanacco e andai alla data di oggi.
Aspetta, chiese Boris.
Secondo te estraggono oggi o domani?
Fino a un’ora fa non sapevo nemmeno che esistessero le lotterie, risposi.
Boris scosse la testa e mi ordinò di aspettarlo lì. Svoltò l’angolo, io appoggiai il piede al muro e mi addormentai. O meglio, rientrai in me stesso al punto che non mi accorsi del tempo che passava. Pensai al libro che stavo scrivendo e che rallentava ogni giorno. Cominciai ad avvertire la sensazione raggelante oddio-altri-due-giorni-così-e-abban- dono-tutto-e-sarà-un-altro-libro-mai-concluso. Per fortuna Boris tornò prima che il terrore inconscio diventasse conscio.
Estraggono oggi.
Riaprii l’almanacco, capitolo Fanculo i poveri, data di oggi. Fatto, disse Boris.
Come?
I numeri. Li ho in testa.
Lo guardai di sbieco. Davvero?, chiesi. Io stavo ancora cercando di capire se la prima figura fosse una ruota o il timone di un veliero. La seconda e la terza erano chiaramente un candelabro e un uomo impiccato a un lampadario.
Secondo te cos’è questa?, domandai. Boris inquadrò la ruota timone.
Il simbolo della Mercedes, rispose. Tutto chiaro. Ci guardammo, abbassammo la testa come due rugbisti in sintonia prima della mischia, e proprio mentre stavo per spingere la porta vidi un lampo scintillargli negli occhi.
Perdonami, chiese.
Ma non l’avevi già comprata al primo bar, la schedina? Sì.
E non potevamo semplicemente segnare numeri e figure qui in strada, senza doverceli ricordare a memoria?
Ha un senso, risposi. Boris mi schiaffeggiò di nuovo la nuca.
Ahi, dissi. Poi aggiunsi, salti alto, non si direbbe. Poi aggiunsi, aspetta. Dove troviamo una biro?
Boris ne estrasse una tra i calzoni e le mutande. Non sapendo da quale strato provenisse, e non volendo domandare, chiesi a Boris di scrivere lui.
Non so scrivere.
Inghiottii la saliva. Dai qui, dissi.
Il tabaccaio arabo in realtà conosceva l’italiano, ma non sapeva come organizzarlo. In pratica conosceva parole che non sapeva unire in un senso compiuto. Il complice ideale per la nostra truffa. Entrammo e gli consegnai la schedina.
Abaco caco mela deprivazione semitotale del sonno, disse lui. Scrutai Boris gongolare compiaciuto. L’arabo ci restituì la schedina timbrata e intascò l’euro, ricambiandoci con un bel sorriso a tinte luminose. Misi la schedina nella tasca destra della giacca.
Mi sentivo libero e fresco e proposi a Boris di festeggiare.
Via Oberdan, via Altabella, via Caduti di Cefalonia.
Spalancammo la porta del Celtic e ordinammo due Guinness.
Cosa ci farai con la tua parte, chiesi a Boris.
La mia parte, domandò lui.
Ma sì, da domani sarai ricco. 50 e 50. Avrai qualche desiderio.
Voglio quella pelliccia fucsia.
Ovvio, risposi. E con gli altri quarantanovemilanovecentoepassa?
Quali quarantanovemilanovecento e passa, chiese lui. Il bancone del Celtic parve addobbarsi a palcoscenico dell’assurdo.
Questa roba paga centomila euro, no? Domani ne incassiamo cinquanta io e cinquanta tu.
Boris mi guardò con disprezzo gonfio di etica francescana. Non sembrava un pazzo fisicamente subdotato appena inciampato su cinquantamila euro.
Voglio solo la mia pelliccia. Non sono un ladro.
Pensai alla solita scena dei film in cui due personaggi si devono spartire un bottino gigante. All’inizio sembrano troppi per tutti, il giorno dopo sono pochi anche per uno solo. Uno spara all’altro, poi si spara. Come in Soldi sporchi, quando Bill Paxton spara a Billy Bob Thornton nella schiena. Pensai fosse meglio non insistere: se ci sarà da azzuffarsi, ci si azzufferà a tempo debito.
Cin.
Tu che ci farai con tutti questi soldi?
Non ci ho ancora pensato, ho questo coso solo da stamattina, dissi battendomi contro la tasca posteriore dei jeans. E ce l’avrai per poche ore se lo tieni così.
La noncuranza mi costò il terzo schiaffo di quelle poche ore insieme. Boris prese l’almanacco, estrasse dalla mia tasca destra la schedina vincente, la infilò a sandwich nell’almanacco e rimise il tutto nella tasca della giacca.
Così è già meglio, commentò finendo la sua birra.
La migliore Guinness di Bologna. Ne ordino altre due, ok?
Annuii e finii anche la mia. Al terzo giro Boris iniziò a raccontarmi uno strano semestre a Dublino vent’anni prima. Se ti dico che è la migliore di Bologna è perché l’ho bevuta ovunque. Non ce n’è come a Dublino, ma questa è ottima. Avevo vent’anni, mi avevano appena cacciato dal Liceo. Silenzio.
Sì, lo so, avrei dovuto finirlo due anni prima, ma tant’è. Come mai Dublino?
Mi avevano detto che gli uomini erano bruttissimi e le donne passabili, ho pensato che fosse l’unico posto dove perdere la verginità senza pagare.
Giusto ragionamento, commentai.
Fu la scelta corretta, perché la prima sera mi ubriacai da fare schifo con una del posto. Maledette irlandesi, è vero quello che si dice: saremo stati alla decima Guinness e fu lei a portarmi a casa sua, reggendomi per un braccio. Lo facemmo su un divano che odorava di
tabacco e lucido per scarpe.
Wow, dissi.
E la cosa bella della Guinness è che per quanto ne bevi dieci e vomiti l’anima nel lavandino del bagno di una sconosciuta e ti becchi bestemmie e insulti a tua madre perché a quel punto potevi arrivare fino al cesso – quanto aveva ragione, povera ragazza – la mattina dopo riprendi a berla come se niente fosse, e la bevi tutto il giorno e poi vomiti nel lavandino di una sconosciuta e poi riprendi. Mica come quelle schifezze che bevono adesso i ragazzini. Sei mai stato al Cicchettaro in via Irnerio?
Come no, risposi.
Forse torni a casa, pronunciammo in coro. Scoppiammo a ridere, brindammo.
Com’era la ragazza irlandese con cui hai perso la verginità?
Hai presente Tom Waits?
Annuii, rabbrividendo.
Poco peggio.