Il postino di Mozzi

Il primo capitolo del romanzo di Fernando Guglielmo Castanar

 

Gentile Mozzi,
eccole tre «corpi» (li chiameremo così se è d’accordo), di cui una prosa e due mail, in modo da identificare subito l’origine e il tipo di materiale narrativo. Si tratta, come vedrà in seguito, oltre che di semplici lettere inviate quando ancora non esisteva posta elettronica, di brevi estratti di romanzi di autori che hanno posto in lei una fiducia, mentre in caso di raccolte di racconti ho scelto e sottratto per lei un singolo racconto. Le inoltrerò pure alcune mail degli stessi autori, come queste di Bravi e Gianetti, da lei a suo tempo ricevute, dal momento che – poi vedremo anche questo – è stato proprio lei a darmi l’opportunità di conoscere parte del traffico della sua posta.
Mi piace la parola sottrarre, ne parla spesso anche lei, Mozzi, come scrittore o ex scrittore, e in qualche modo mi piacerebbe poter definire questo progetto una solida operazione di sottrazione. 

 

 

Corpo 1

 

Adrián N. Bravi

a.bravi@itamar.br 15 marzo, 2016, ore 20,22 oggetto: Ombre di Luna sul fiume senza testa

Gent.mo Mozzi
qualche mese fa, o forse è già trascorso un anno, chissà (da queste parti il tempo è talmente fermo che sfugge via come una scheggia), le avevo spedito un romanzo ambientato intorno a casa mia, una capanna di legno che ho costruito cinque anni fa con le mie mani (ci tengo a precisarlo), in un’isola del fiume Rio Negro, di fronte alla città di Manaus. Si dovrebbe ricordare di me, se la memoria l’assiste ancora, perché tutte queste cose io gliele avevo raccontate, anche nel dettaglio, e adesso che il tempo è passato vorrei chiederle se ha avuto modo di leggere il testo. Nel post scriptum alla lettera, questo me lo ricordo bene, le avevo chiesto la massima cura, perché quella che le ho spedito è l’unica copia esistente del romanzo. Sono sicuro che se lei cerca tra le sue carte la trova, scusi se la sollecito. Quindi, le ho mandato l’unica copia che possiedo (o non possiedo), scritta a macchina con una vecchia Remington degli anni Cinquanta (una delle poche cose che mi sono portato dall’Italia). Il romanzo si intitola Ombre di Luna sul fiume senza testa e inizia con una scimmia appesa a un ramo che si dondola con una zampa oppure con la coda, adesso non ricordo. Sotto l’albero c’è un personaggio di nome Valdomiro che la guarda e immagina l’animale steso su una graticola. La scimmia, indifferente, saltella da un ramo all’altro, come se stesse giocando. Valdomiro prende il fucile, si mette seduto su una sedia e comincia a osservarla attraverso il mirino. Non vuole sparare, vuole solo averla sotto tiro (ognuno, animale e uomo, gioca per conto suo). Alla scimmia piace essere guardata dal buco di un fucile e all’uomo piace guardarla saltellare di qua e di là, con quell’andamento un po’ nevrotico che hanno le scimmie. Il gioco dura mezz’ora o un’ora, non ricordo bene (se recupera il testo lo può verificare), fino a quando arriva “Il sordo”, un uomo piccolo e basso, con un udito così sottile che riuscirebbe a sentire i passi di un alligatore a venti metri di distanza. Attraversa il prato con passo circospetto e quando si avvicina a Valdomiro gli toglie il fucile dalle mani.
Qui non si spara alle scimmie appese, dice Il sordo. Ah, no? Chiede Valdomiro, giusto per non dargliela vinta. E a cosa si spara allora? A quello che ti pare, tranne che alle scimmie, risponde Il sordo. Ma io non volevo sparare, la stavo solo guardando dal mirino. Ho capito, dice Il sordo, e se poi ti scappa un colpo? Allora come devo fare se voglio fare fuori una scimmia e mangiarmela sulla graticola? Chiede ancora Valdomiro. Non lo so, risponde Il sordo. Be’, dovresti sapere dare una risposta a uno che mangia tutto il giorno frutta e pesci ed è stanco di mangiare frutta e pesci dalla mattina alla sera; avrei pure diritto di mangiarmi una scimmia, se volessi un minimo di carne, o no? No, non hai nessun diritto.

Nel frattempo, la scimmia era andata via protestando per qualcosa che nessuno dei due, né Il sordo né Valdomiro avevano capito. In questo modo, più o meno, si conclude il primo capitolo del romanzo che, ripeto, le ho spedito all’incirca un anno fa, intitolato Ombre di Luna sul fiume senza testa. Nel secondo capitolo c’è una lunga descrizione del posto. Il terzo capitolo, invece, parla di Valdomiro che prende la sua barca e attraversa il fiume Rio Negro per andare in un vecchio quartiere di Manaus. Entra in un bar, si beve due o tre cachaça e poi va a trovare un italiano che vende scarpe usate. Parla un po’ in italiano, che lui, Valdomiro, quando parla in italiano gli sembra di ringiovanire. Entra ancora in un altro bar e si riprende altre due o tre cachaça. Prima di tornare alla sua capanna va in un mercato clandestino e compra una piccola scimmia nera come il demonio. Il giorno dopo, questo passaggio se lo dovrebbe ricordare, perché sono andato avanti di parecchie pagine con questa storia, Valdomiro piazza la gabbia con la scimmia dentro sopra un tavolo e lui, seduto in poltrona, la guarda per ore e ore attraverso il mirino del fucile. Mentre l’osserva si chiede sul senso della vita e della morte, sulla possibilità di un paradiso scimmiesco, si chiede anche se tra i preadamiti c’erano anche le scimmie come quella che ha di fronte.
Come può capire, gentile Mozzi, Valdomiro si chiede tante cose mentre osserva attraverso la lente. Poi porta la gabbia di fuori e la lascia sul prato. Alla fine prende bene la mira e spara contro il lucchetto che chiude la gabbia. La gabbia si ribalta e la scimmia, spaventata, riesce a sfuggire via tra i cespugli.
Domani torno in città per imbucare questa lettera e spero, nel frattempo, che lei abbia già letto almeno una parte del romanzo e sappia darmi una risposta, perché, come dicevo prima, da queste parti il tempo sfugge via come una scheggia.

Adrián N. Bravi

 

Corpo 2

 

Valentina Di Cesare

Non è detto, ogni cosa va a modo suo, e per quanto riguarda i morti alcuni di loro restano vivi più di altri. Carlo il beccamorto, lo chiamano ancora così da queste parti, i primi a farlo dopo i funerali, furono i parenti dei defunti. Al contrario di quel che può sembrare, per lui non era affatto un epiteto dispregiativo, è solo che qui in questo paese e in generale nei luoghi dove l’agguato della miseria è sempre dietro l’angolo, le tenerezze nessuno sa farle, nemmeno con le parole e se si deve dire qualcosa di bello a qualcuno, se gli si deve fare un complimento, lo si fa in modo che sembri sempre una canzonatura. «Non si sa come faccia, ma Carlo sembra che li rimetta in vita», dicevano col fazzoletto in mano i familiari dei morti, soddisfatti per la cura che nonno aveva dei loro cari e commossi per la restituzione dignitosa che ne donava, al momento dell’estremo saluto. «È bravo Carlo, sa fare bene il suo mestiere, quelli suoi sembrano i funerali di città, con le coccarde messe al posto loro, le composizioni ricche, l’ordine, il decoro, la pulizia», dicevano convintamente i conoscenti, anche chi non aveva ancora avuto il piacere – o il dispiacere – di vedere applicate su un proprio congiunto, le abilità di Carlo il beccamorto. La nomea iniziò a crescere, i soldi a moltiplicarsi. Lo chiamavano anche dai paesi limitrofi, per cui bisognava attrezzarsi con un furgoncino più confortevole e un ufficio più accogliente. “Da Carlo Vitale, servizi eterni per i defunti, supporti gentili per i familiari”: c’era scritto così sul cartello che aveva fatto appendere fuori la porta dello studio, ormai non mancava più niente, il beccamorto dal cognome tutt’altro che in linea col suo mestiere (o forse sì, chi lo sa) aveva fatto fortuna con la morte, a trent’anni passati si era anche sposato e dall’unione erano nati due bei figli maschi; si era costruito un villino poco fuori paese, con orto e giardino e la sua vita proseguiva quietamente, fianco a fianco con la morte, l’unica in grado di aprirgli tutte le strade. Tanta fortuna non gli aveva mai provocato contro l’invidia di nessuno: non si sentì mai che qualcuno gli rivolgesse una parola sgarbata e chi pure non lo stimava mai si permise di contestare una sola volta il suo lavoro. Anche questa storia dell’invidia, che secondo la regola dovrebbe scoppiare dinanzi a chi ha successo, ecco questa storia non è sempre vera, è come quella della morte che dà vita, o come l’altra che vuol farci credere che il passato sia sempre da dimenticare, insomma non è detto. Però, seppure l’invidia non arrivò mai, arrivò per lui la morte e lo raggiunse senza dargli il tempo di prepararsi perché la trovò ad attenderlo al passaggio a livello di Fossalto, un giorno che nessun manutentore era potuto andare a riparare il guasto.

 

Corpo 3

 

Alessandro Gianetti

Da: bernardo vibe<bernardovi73@virgilio.it>
Inviato: mercoledì 15 ottobre 2002 10:41 Oggetto: Le ragioni di una sconfitta

Stimatissimo Sig. Mozzi,

le scrivo per la seconda volta anche se, sinceramente, preferirei non farlo. Non che mi ritenga un secondo Bartleby, l’esperienza insegna ad agire controvoglia, ma è disdicevole esservi costretto in questo modo.

Nella prima mail le parlavo del romanzo che le ho inviato alcuni mesi fa, il 7 febbraio del 2002: Le ragioni di una sconfitta. Si trattava, anche in quel caso, dell’ennesimo invio, visto che i primi erano andati a finire nella buca delle lettere di qualcun altro, a giudicare dal silenzio che ho ricevuto per risposta. In seguito a quelle delusioni, ho deciso di spedire il libro per posta raccomandata (conservo ancora la ricevuta in un cassetto della mia scrivania), ma vedo che la conclusione è sempre la stessa: lei ha la pessima abitudine di non rispondere.
Non vorrei essere frainteso, infastidisce anche me la protervia con la quale oggi chiunque reclama il successo, l’insostenibile paradigma in base al quale tutti si considerano scrittori: ne deriva una proliferazione di testi scadenti che intasano le cassette postali di editori sempre più indaffarati (s’immagini che la sua l’ho anche sognata, una notte, stipata di fogliacci). Sono consapevole, insomma, delle difficoltà che deve affrontare per sbrigare al meglio il suo lavoro, ma avendo concordato con lei tempi e procedure, come sono certo che ricorderà, mi sarei aspettato almeno un po’ di correttezza. Le dirò una cosa, ho tutta l’intenzione di venirle incontro, e le scrivo di nuovo per darle una possibilità di redenzione.

C’è anche una ragione più personale per cui lo faccio, non glielo nascondo: non vorrei trarre su di lei un giudizio frettoloso e ingiusto; quando mi succede ne ricavo sempre un malessere stomacale che non riesco a togliermi, come se la scarsa generosità si traducesse immediatamente in un malanno. Anche adesso, mentre le scrivo, il mio stomaco è in subbuglio, tanto che ho dovuto prendere un omeprazolo da 20 mg. Lo tengo sempre in casa, per le evenienze come questa. A tale proposito, lasci che la interroghi su un punto: si è mai fermato a pensare alla straordinaria quantità di emozioni che deve digerire il malcapitato stomaco di un esordiente? Le ansie, le aspettative, e poi la paura di non farcela e la gioia di vedere che, talvolta, si è inaspettatamente all’altezza della situazione? A tratti sento che il mio stomaco si distende, come un serpente che si libera dalle contorsioni cui lo costringo, ma purtroppo accade di rado.

Mi scusi, sto divagando, torniamo all’oggetto di questa mail. Il romanzo che le ho inviato, come le spiegavo già otto mesi fa, racconta la storia di Amos Marassi, un commerciante di Genova che cerca di sbarazzarsi del suo socio in affari, Antonio Spinosi, perché disonesto. Dopo aver provato di tutto, è costretto a riconoscere di non essere in grado di estrometterlo dalla società che hanno fondato. Marassi perdonerà al suo antagonista l’inganno e perfino una frode milionaria, pur di non dover sopportare il tormento che gli viene dal suo animo compassionevole. Ora, vede, stimatissimo Sig. Mozzi, io non voglio giocare questa partita su due tavoli, addossando su di lei la moralità di un personaggio fittizio, che mi somiglia come un gemello: sarebbe troppo facile averla vinta così. Mi chiedo tuttavia se nelle sue alacri giornate di lavoro non trovi un minuto per battere una risposta qualsiasi. Mi azzardo a suggerirgliene alcune: non ha ancora ricevuto il romanzo (non credibile), ha avuto un incidente in automobile (sfortunata ma credibile), soffre di una malattia che non sapeva di avere (pregherei per la sua guarigione); infine, l’ultima: il manoscritto le è piaciuto così tanto che sta già pensando alla quarta di copertina. Come vede, non sono troppo esigente, in quanto a scusanti, ma non posso indovinare il vero motivo che l’ha indotta a rompere il nostro accordo, e credo di aver diritto a una spiegazione.

Un’ultima cosa prima di lasciarla al suo tempo che evidentemente non ha prezzo: vivo in Spagna dal 2001, ed è forse a causa di un’immagine lontana e idealizzata del nostro paese, frutto dei libri e dei ricordi, entrambi dolcemente ingannevoli, che stimo ancora l’Italia un paese di perso- ne per bene, dalle quali è lecito aspettarsi il rispetto non dico delle regole, quelle proprio non fanno per noi, ma almeno dei patti tra persone decenti. Dovrei forse credere a chi sostiene, al contrario, che l’Italia è un paese senza speranza, alla mercé di leccapiedi e consorterie che lasciano andare avanti solo chi ha gli agganci giusti? Sono restio alle tentazioni del pessimismo, danneggia anzitutto chi lo coltiva, ma dovrò considerarlo l’unico stato d’animo possibile se non dovesse rispondere a questo mio secondo, estremo sollecito.

Testardamente suo (ma non ancora per molto)

Bernardo Vibe

P.S.: Per chi vive all’estero, come me, l’Italia è il paese dei sogni, che s’illude di comprendere addirittura meglio grazie a una distanza, diciamo così, di sicurezza. È come un’emulsione chimica, se mi passa la metafora, dove il concentrato degli affetti è distillato in poche gocce, mondate da ciò che lo ha indotto ad andarsene lontano. Mi perdoni se ho riposto in lei una fiducia che non merita


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Arkadia Editore è una realtà nuova che si basa però su professionalità consolidate. Un modo come un altro di conservare attraverso il cambiamento i tratti distintivi di un amore e di una passione che ci contraddistingue da sempre.

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