A pelle scoperta

Dalla raccolta di racconti di Francesca Piovesan

 

LUNA PARK 

 

Il luna park apriva alle diciotto dal lunedì al venerdì, il sabato e la domenica alle sedici. Così per due settimane, tutti i giorni nella seconda e nella terza settimana di marzo. Non era un luna park stabile, ma attivo soltanto durante la fiera, proprio in quel periodo dell’anno. Alle solite venti giostre se ne erano aggiunte altre cinque vicino allo stadio, in tre parcheggi dove durante gli altri mesi non si vedeva nessuno, nemmeno un camion parcheggiato, ma solo qualche ragazzino che tentava di non far cadere i birilli mentre imparava a diventare coraggioso in bicicletta.
Per Greta, con i diciannove già compiuti, era l’anno della maturità e delle simulazioni: il tema di italiano, la prova di lingua e le decine di materie da ripassare dall’inizio. Litri di sapere che le avrebbero allagato il cervello.
Greta conosceva Elvis da quando aveva tredici anni, la prima volta gli aveva chiesto: «Ti chiami veramente Elvis? Come il cantante, quello morto gonfio di alcol?»
Lui le aveva risposto di sì, ma Greta non aveva mai visto una carta d’identità o la patente, perché Elvis la patente doveva averla altrimenti come avrebbe potuto guidare il camion dove venivano caricati come polli da batteria gli autoscontri? Non lo aveva mai visto guidare una macchina, solo il camion e il motorino viola che usava per andare a casa, alla roulotte o per spostarsi tra i parcheggi. La primavera dei tredici anni, quando si erano conosciuti ed Elvis ne aveva tre in più, Greta lo raggiungeva di nascosto dietro la cassa e lui le regalava delle corse gratis, non succedeva altro.
Gli amici di lei lo chiamavano zingaro, lui diceva che era figlio di giostrai, lei lo chiamava Elvis e guardava il fratello più grande, che avrebbe potuto svitare a mani nude tutti quei bulloni di ferro, che diceva al fratello più piccolo: «Ti metterai nei casini con mamma e papà, io ti avviso.»
Elvis, quando cominciava a fare freddo, per sbattersi sugli autoscontri, lasciava la roulotte e andava ad abitare in una casa vera come quella di Greta e dei suoi amici.
«E con la scuola come fai?», era la domanda che gli faceva ogni primavera di ogni anno, «con la scuola come fai?»
Lui alzava le spalle e ripeteva sempre: «Ci vado quando posso, per il resto mi arrangio.» Si era arrangiato e tre anni prima di Greta si era diplomato in un istituto tecnico, era diventato un perito elettrotecnico, un perito elettrotecnico zingaro figlio di giostrai, un perito elettrotecnico di nome Elvis.
Greta non aspettava con desiderio quelle due settimane di marzo, capitavano come erano già capitate tante altre cose: l’aborto di sua sorella, la canna fumata in discoteca, i chili persi e dopo ripresi, il sesso con Alessandro, la monetina lanciata dal balcone che le aveva ferito la guancia. Elvis capitava e lei un giorno si era chiesta se ne fosse mai stata innamorata, se lo amava anche in quelle ore prima delle diciotto quando si raccoglieva i capelli o indossava l’anello con la pietra verde che le aveva regalato l’anno prima. Quello trovato sulla pista.
Elvis era bello e biondo con dei capelli morbidi, che la sfioravano sempre quando lui si abbassava per sentire quello che diceva per via della musica troppo alta. Aveva dei denti bianchissimi, perfetti, denti così Greta non ne aveva mai visti nemmeno sulle riviste di moda, nemmeno nei suoi sogni aveva mai visto denti più perfetti. E poi conservava sempre l’abbronzatura: era colorato come il caramello levato in tempo dalla fiamma del gas e aveva le dita lunghe con delle unghie rotonde macchiate di bianco, ogni unghia una piccola lacrima. Elvis era bellissimo ma Greta non ci pensava mai in sua assenza, non aveva mai avuto voglia di scrivergli una lettera, di chiedergli l’indirizzo della casa di mattoni. Non l’aveva mai baciato, lui non l’aveva mai baciata. Passavano delle ore a sorridersi, ad ascoltare la musica nelle cuffiette dei cellulari, a guardare video di cani e gatti che cadevano dai divani, che litigavano e si arrampicavano, che riconoscevano i padroni dalle finestre, cani e gatti che amavano essere amati. Greta gli raccontava della scuola, lui le mostrava la scatola riempita con gli oggetti che trovava sulla pista e se c’era qualcosa che le piaceva se la poteva portare a casa. L’anello per esempio non lo aveva scelto lei, era stato Elvis a decidere che quella fosse la pietra che avrebbe portato la fortuna e la sorte buona a entrambi. Quando Elvis ripartiva e capitava che lei continuasse a vivere senza di lui si chiamavano la prima volta dopo una settimana, restavano al telefono un’ora circa e poi si risentivano la settimana successiva. Nessun messaggio, nessun cuore rosso che palpitava tra due schermi. Nessun mandami una tua foto, un pezzo di te. Nulla.
Quella mattina Elvis le aveva scritto: ci vediamo più tardi, solita ora; e Greta gli aveva risposto: ok. Un messaggio dopo sei anni e lei aveva risposto ok. Non si era chiesta nulla, aveva indossato la felpa pesante sotto il giubbotto di pelle nera perché faceva un freddo ostinato quell’inverno, e lo aveva trovato appoggiato al bancone del piccolo gazebo a guardare i pesci rossi che nuotavano nelle vasche di plastica. Era dimagrito, i jeans gli stavano male sul sedere e la schiena era un po’ più curva. Greta gli toccò una spalla e si sorrisero di tutti i sorrisi conservati sotto sale per sei interi anni.
Glielo disse mentre stavano mangiando le mandorle tostate e il sacchetto di carta diventava sempre più tiepido tra le mani: «Greta io mi sposo, a luglio. Si chiama Veronica, è incinta e dobbiamo sposarci.» Lei non disse nulla, nulla come nulla erano stati i baci, le lettere i cuori mai inviati e ricevuti.
Quella sera rimase lì al luna park fino all’ora di chiusura, a mezzanotte più o meno. Ferma a guardare gli autoscontri che sbattevano uno contro l’altro, a fissare i seggiolini vuoti della giostra a catene che salivano al cielo, a vedere nascere lo zucchero filato, immobile davanti ai pochi bambini che si arrampicavano sui cavalli bianchi, immota come lo sguardo di Elvis che la fissava liquido e in tempesta in attesa di una reazione.
Greta non uscì più per i restanti giorni della fiera, si fece venire la febbre e una mezza bronchite da curare subito con antibiotici e cortisone, impose al suo corpo di stare male, di soffrire tutte le pene che la sua lingua non sapeva esprimere, i pugni e gli schiaffi da rivolgere contro il viso e le spalle abbronzate di Elvis li rivolse ai suoi polmoni che assorbirono tutto come spugne gettate in una vasca. Lui le scriveva ogni giorno e lei ogni giorno sperava che quel suono fosse Alessandro per chiederle come andasse con la febbre, se sentiva dolore quando respirava, se riusciva a dormire nelle notti di inizio primavera. Invece era lui e lo malediceva mille volte e altre mille lo odiava e non rispondeva e nemmeno piangeva. Lui le scriveva soltanto: Greta? Un nome urlato sopra i tormentoni musicali dell’estate passata e lo immaginava così con le gambe in alto incrociate fuori dal finestrino della roulotte mentre aspettava.
Elvis le scrisse fino all’ultimo giorno della fiera, fino all’ultimo minuto in cui mise in moto il camion e ripartì, poi non le scrisse mai più. Lei ritornò a scuola con il viso pallido e le gambe deboli con la stessa felpa pesante di quella prima sera. Alla macchinetta del caffè incontrò Alessandro, si era fatto un altro piercing al naso, alla narice sinistra. «Stai meglio?», le chiese. «Sì», Greta selezionò due palline di zucchero per la cioccolata calda. «Ricordati che oggi pomeriggio c’è assemblea per il cineforum di fine anno.» Lei gli fece solo un cenno impercettibile e poi lo guardò andarsene e si soffermò sui suoi capelli color carota.
A luglio si diplomarono insieme, il giorno dell’orale ripeterono a turno la tesina una negli occhi dell’altro, Alessandro senza piercing ma sempre con i capelli arancioni, Greta con un anello sormontato da una pietra gialla, era il primo regalo del suo ragazzo dopo due anni. L’anello con la pietra verde lo aveva messo in un cassetto la sera che Elvis le aveva confessato che sarebbe diventato padre e marito.
Il marzo successivo tornò la fiera, Greta frequentava Lettere all’università, viveva con Alessandro e altre due ragazze in un appartamento della periferia di Padova, in una zona grigia e verde insieme, in cui i bambini non si stancavano mai dei giochi scrostati e dei vecchi del parco, con donne anziane e sole che cercavano conforto in un carrellino della spesa trascinato. Lei guardava tutto dalla finestra, studiava, scriveva su quaderni che Alessandro comprava al mercatino del sabato mattina; aveva anche imparato a cucinare bene, a tagliarsi i capelli davanti allo specchio e a tagliarli anche a lui mentre restava a petto nudo sotto il neon bianco. Dai loro genitori tornavano poco anche se con l’auto ci mettevano più o meno un’ora ad arrivare alla loro prima casa. Ma per la fiera contavano di ritornare e lei sarebbe an- data al luna park alle diciotto, solita ora, alle diciotto per vedere il figlio di Elvis.
Elvis e Greta si accorsero subito l’uno dell’altra, anche Alessandro capì immediatamente, lasciò cadere la mano che teneva il fianco di Greta, le sussurrò qualcosa all’orecchio e si allontanò. A lei piaceva guardarlo andar via in quel modo, le era sempre piaciuto vederlo andare così, quando camminava nei corridoi all’università o al liceo, se ne tornava al banco dopo le interrogazioni andate male e si metteva le mani nelle tasche dei jeans e si toccava un po’ il naso; gli guardava sempre le spalle anche dopo che avevano fatto l’amore, in quei pochi secondi che lui impiegava ad alzarsi dal letto lei gli guardava le spalle e le lettere dei tatuaggi che segnavano le vertebre.
Elvis aveva gli stessi capelli biondi, la stessa pelle color caramello, a Greta sembrò subito padre e marito con occhi di padre e marito e con le mani che avevano cullato e accarezzato pance che scalciavano e pance che si disperavano per le coliche. Lui si chinò per baciarle la guancia, lei non ricambiò gli sfiorò solo la pelle, doveva restare concentrata sui capelli per capire se fossero ancora morbidi. Gli chiese subito: «Come si chiama?»
«Riccardo», le ripose, «è nato a settembre… il tre.» «Bel mese», gli disse. «Il mese del sole gentile.»
Elvis sorrise e lei riuscì a capire che i denti erano ancora tutti lì, nessuno glieli aveva strappati di notte, nessuno aveva turbato quella bellezza, nemmeno Riccardo.
«Lo vuoi conoscere?»
Greta si guardò in giro cercando Alessandro. «Greta, lo vuoi conoscere?»
Elvis stringeva tra le braccia Riccardo o almeno quello che sembrava un neonato di sei mesi in una di quelle tutine gonfie per proteggere l’odore e la pelle di chi conosce ancora troppo poco quello che gli sta attorno. All’improvviso lo ebbe tra le braccia Riccardo, e quel bambino che dormiva non aveva smarrito l’odore del padre e nemmeno si stava preoccupando del profumo di un’altra donna che non fosse sua madre. Pensò a sua sorella, a chi non era nato, ad Alessandro, a cosa avrebbe pensato se l’avesse vista adesso, sempre così attenti a usare le precauzioni perché erano giovani e dovevano studiare e poi chissà.
«Non ti assomiglia per niente», gli disse lei. Lui sorrise di nuovo: «Per fortuna assomiglia alla madre», ma non ci credeva in fondo perché lui Elvis e lei Greta sapevano benissimo quanto fosse bello e quanto lo sarebbe stato anche fra dieci o vent’anni. Alessandro le arrivò improvvisamente alle spalle, lei scostò il cappuccio della tutina che copriva il volto di Riccardo per mostrarlo al suo ragazzo, Alessandro gli sfiorò la guancia con un dito. Poi se ne andarono a pescare dei pesci finti, cercando di vincere due pesci rossi e veri da portare nella casa di Padova. Riccardo ritornò tra le braccia di suo padre e se ne andarono verso una roulotte grigia con una ghirlanda di fiori chiari appesi alla porta.
Mentre stavano lasciando il luna park Greta si accorse di una donna che allattava alla piccola finestra della roulotte, era Veronica. Si guardarono da lontano: una donna con un neonato attaccato al seno e un’altra con in mano un sacchetto di plastica e due pesci in pochi centimetri d’acqua. I pesci somigliavano a delle carote come i capelli di Alessandro. 


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