L’intervista a Gian Marco Griffi su La Stampa
“Racconto l’assurdo per apparecchiare la tavola alla realtà anzi, alla verità”
Gian Marco Griffi, direttore del golf club Margara ama scrivere e ha da poco pubblicato la gustosa raccolta di racconti “Inciampi”
Si presenta come «scrittore del lunedì» Gian Marco Griffi, perché è il giorno libero dal suo lavoro di direttore del golf club Margara. Dopo il romanzo «Più segreti degli angeli sono i suicidi» (Bookabook, 2017) ha pubblicato i racconti «Inciampi» (Arkadia). Recentemente ne ha parlato in un incontro con il giornalista Carlo Francesco Conti alla libreria Marchia Mondadori.
I mestieri della scrittura sono tra quelli che generano maggiormente nevrosi e conseguenti gastriti. Spesso con la letteratura non generano neppure profitto. Quindi, chi glielo l’ha fatto fare?
«Io scrivo e mi diverto. Per me la scrittura è una passione, un hobby, e per vivere ho un lavoro vero. Quindi niente nevrosi e niente gastriti (causate dalle scrittura – quelle me le procura il mio lavoro vero, come a tutti)».
Quando ha cominciato?
«Da piccolo, facendo dei fumetti. Però i disegni erano proprio brutti, così ho continuato a scrivere senza disegnare».
Proviamo un po’ a raccontare com’è l’officina letteraria Griffi. Come scrivi, come sceglie le sue storie?
«Ormai scrivo ovunque, in qualunque modo. Nello studio a casa, al bar, ma anche su telefono accostando mentre guido e in altri momenti stravaganti. Mentre sto scrivendo una storia le idee mi vengono in qualunque momento, e bisogna catturarle prima che si può (anche se, a dire il vero, quando un’idea è buona ti resta addosso anche senza bisogna di prenderne nota). Per quanto riguarda le mie storie, nascono osservando le persone che camminano per strada, che chiacchierano al bar, che fanno le loro cose da persone. Soffermandosi a osservare gli altri si scopre una quantità di storie possibili impressionante».
Jean Paulhan in “I fiori di Torbes” per parlare della letteratura utilizza la metafora dei giardini pubblici. Spiega che a Torbes, si legge: “Vietato entrare con mazzi di fiori in mano”, per indicare che uscire con fiori dai giardini può significare averli rubati. In letteratura, aver usato cliché. La parodia è il suo vaccino nei confronti dei cliché?
«I cliché in scrittura sono il male assoluto. Se vogliamo, la parodia è un modo alquanto elegante e furbo per aggirarli, ma in realtà non è questo lo scopo della parodia per me. Innanzitutto, per parodiare qualunque cosa, occorre essere in grado di reggere il confronto con l’originale, e questa è una delle cose più difficili. Per parodiare la Commedia di Dante bisognerebbe essere capaci di scrivere come Dante, e questa è una delle ragioni per cui qualunque forma di parodia di Dante è destinata all’insuccesso. Naturalmente questo vale anche con altri grandi autori; nel mio modo di intendere la scrittura, la parodia ha una doppia funzione: da una parte vuole essere una sorta di omaggio, dall’altra un modo per aggirare la tesi secondo la quale “tutto è già stato scritto”: naturalmente non è così, altrimenti potremmo fermarci ai poemi omerici, dove c’è già tutto. La scrittura, il modo nel quale si racconta una storia, fa sempre la differenza, e permette di raccontare la stessa storia in mille modi diversi. Per questo la letteratura non esaurirà mai il suo valore e la sua funzione di indagine sull’essere umano».
Sia in “Più segreti degli angeli sono i suicidi”, sia in “Inciampi” si nota una motivazione esistenzialista, evidenziata dalla sua prospettiva nell’evocare l’assurdo (che alcuni trovano bizzarro). Da cosa ha origine? Che cosa la spinge a cercare l’assurdo nella realtà o a costruirlo (come nella storiella delle lucciole in Monferrato)?
«L’assurdo è il mio modo di comunicare il disagio, il male, l’angoscia. Mi sembra che nell’ambito dell’assurdo si riesca a osservare la realtà, quasi mi verrebbe da dire la verità, di certi frangenti dell’esistenza che altrimenti sarebbero offuscati. Costruire l’assurdo è apparecchiare la tavola per questo genere di osservazione; si riesce a mantenere le distanze, a focalizzare meglio un concetto o un punto di vista e nello stesso tempo a distanziarsene, a trovare un approccio più oggettivo. Per me lo scrittore, ancor prima di essere un individuo che tenta di conoscere se stesso (cosa certamente vera), deve riuscire a raccontare una storia dal di fuori, senza contaminazioni personali che spesso fanno scadere il racconto».
Come è stato scelto il titolo “Inciampi”?
«A differenza del mio primo libro, che avrebbe potuto intitolarsi “Cadute rovinose senza possibilità di rialzarsi”, in questi racconti si intuisce una luce, una possibilità di redenzione, di una vita migliore, di qualcosa di buono. Da qui gli inciampi, brevi cadute da cui poi ci si può rialzare».
A proposito di “Più segreti degli angeli sono i suicidi” c’è chi ha evocato uno dei numi della letteratura postmoderna, Barthelme. Invece nella sua scrittura appare una volontà di superare il postmoderno, ammesso che se ne possa ancora parlare, sia nel romanzo che nei racconti. La sua idea?
«Sì, è così. Nel senso che i miei tentativi vanno in quella direzione. Il postmoderno è stato un momento divertente nella storia della letteratura, ma oggi non ha più senso, se considerato come unico scopo della scrittura. Ma la letteratura non distrugge ciò che è stato, lo ingloba, lo trasforma, lo arricchisce o lo diminuisce, trovando una nuova collocazione; in questo senso ho fatto tesoro del postmoderno e mi spupazzo a mio piacimento talune forme e taluni modi di scrivere postmoderni nel mio “stile”».
Nella postilla a “Inciampi” lei ringrazia “Tutti i poeti del mondo, vivi e morti, avrei voluto essere uno di voi. Tutti”. Come influisce la poesia sulla sua scrittura? Come è giunto alla scelta del racconto, dimensione in cui si muove in modo ottimale? Quali sono i suoi poeti di riferimento?
«La poesia è una mia grande passione. C’è stato un periodo nel quale credevo che il mio mezzo di comunicazione fosse la poesia. Mi sono reso conto che non era così. Il racconto, viceversa, per me è ideale perché mi permette di inglobare elementi tipici della poesia e elementi della prosa; è perfetto per il mio tipo di scrittura, che è ramificato, non si fossilizza in un unico modo di narrare. Ogni storia pretende un suo tipo di scrittura, un suo linguaggio particolare, e il racconto permette di spostare l’attenzione su più fattori contemporaneamente, non nell’ambito dello stesso racconto, ma certamente nell’ambito di una raccolta di racconti, benché scritta per essere quanto più possibile omogenea (e infatti in Inciampi i personaggi sono ricorrenti, le storie si intrecciano). Un altro modo per dirla è: quando racconto una storia non sono un maratoneta, sono un centometrista, al massimo posso correre i quattrocento metri; in questo spazio e in questo tempo sento di dare il meglio della mia scrittura. I miei poeti di riferimento sono tantissimi. Leggo e rileggo Eliot, per esempio, o Dylan Thomas. Ma il mio amore incondizionato va specialmente agli italiani, se non altro per una questione linguistica, per il mio grande amore per la lingua italiana, e quindi Zanzotto, Milo De Angelis, Raboni, Sanguineti e tanti altri».
Che effetto fa aver ispirato il conio del termine «virgola onnivalente»?
«Questa è un’espressione coniata dal (bravo) Mauro Maraschi nella recensione di “Inciampi” su L’Indice dei libri del mese, e riesco a comprenderne il significato, quello sì, ma più ci rifletto più mi rendo conto che è un’espressione che può voler dire tutto e niente. Comunque, basandomi sull’intuizione immediata dell’espressione “virgola onnivalente”, cioè una virgola utilizzata per mille scopi diversi nell’ambito della narrazione, ho utilizzato la virgola in questo modo perché sono convinto che le voci della narrazione ne emergano arricchite; naturalmente una delle questioni tecniche che più mi premeva approfondire nei racconti di Inciampi era il ritmo. Inciampi, almeno nella sua prima parte, “Notizie dalle colline”, è un’epica minima della narrazione orale. Per questo i racconti si intitolano tutti, o quasi tutti, “Storiella di”, è come se ci incontrassimo al bar, o per strada, e ti dicessi senti questa: e via con la storiella. Questo volevo fare con i racconti di Inciampi. E allora, i dialoghi, in questi racconti i dialoghi sono stati integrati nella narrazione, fusi insieme, in modo che quasi non si distingue la narrazione dal dialogo. Perché quando uno ti racconta una storiella mica si ferma per andare a capo, mica mette i due punti, mica mette i caporali. No, parla e parla e parla, racconta a ruota libera. Ogni tanto prende fiato, ci va una virgola, ogni tanto gesticola, ci va un’altra virgola, ogni tanto beve un sorso di amaro, ci va un punto e virgola, ogni tanto si scusa, va in bagno a pisciare e poi torna, ci va un punto, poi torna e attacca a raccontare un’altra cosa, o la stessa cosa ma da un’altra prospettiva, ci va un punto e a capo. Rendere questa oralità, in un racconto, è difficilissimo, mi pare, giacché il racconto orale è quello scritto, anche se lo scritto effettua una mimesi dell’orale sono due mondi completamente distinti. Lo scritto allora deve fingere di essere orale, e per farlo ha bisogno di un sacco di artifici, tantissimi davvero, per fare in modo che il lettore percepisca il racconto nel modo giusto. La virgola, onnivalente o non onnivalente, diventa un’arma fondamentale. È evidente che il risultato può essere ottimo oppure un vero schifo, dipende dalla padronanza che chi ha scritto il racconto ha delle armi a propria disposizione. E ancora, il risultato, per quanto ottimo, può risultare cacofonico al lettore, oppure può fare l’effetto appiattimento delle voci, e la tua domanda mi fa pensare che a te o a chissà chi possa aver fatto questo effetto qui. Pazienza. Sono ben cosciente che ci sono stili di scrittura che non vadano a genio ad alcuni, se volessi scrivere con lo stile piatto tipico di molte narrazioni, quello che piace a tutti e a nessuno, scriverei così, ma poi smetterei subito, perché per me la scrittura è prima di tutto approfondimento e ricerca sul linguaggio, e per linguaggio ovviamente intendo anche i segni di interpunzione, il parlato, il dialettale, e tutto questo mondo magnifico che è la lingua italiana».
Sul web (malgradolemoscherivista.wordpress.com) si può leggere la sua «Storiella degli impiccati». E’ un contraltare della «Storiella del sonno» e di «Insetti dalla Russia»? Come mai non compare in «Inciampi»?
«Purtroppo l’editoria ha regole che vanno oltre la volontà di chi scrive. “Storiella degli impiccati” è un racconto piuttosto lungo, e non c’era spazio. Però è giusto: nella “Storiella del sonno” un contadino di un piccolo paese del Monferrato (sono tutti piccoli paesi, quelli del Monferrato) viene gettato nel mezzo di una guerra della quale non conosce le ragioni, come quasi tutti i ‘soldati’ improvvisati della prima guerra mondiale, e reagisce a questa condizione estrema maturando una forma di letargia, di narcolessia, che non è una condizione patologica, non c’è medicina che possa guarirlo, è una condizione dell’anima, una reazione a quanto gli accade intorno. Nella “Storiella degli impiccati”, per contro, due soldati (questa volta siamo nella seconda guerra mondiale), decidono di disertare e iniziano un viaggio donchisciottesco che li condurrà a una fine già scritta, perché purtroppo la nostra società, da sempre, perdona tutto tranne l’ingenuità, la purezza, la voglia di cambiare le cose. Queste cose non sono ammissibili».
Marco Filoni fa notare: “Ci sono anche parole ambigue, disabitate, che possono diventare ostacoli, nei quali perfino i migliori narratori, prima o poi, finiscono per inciampare”. Quali sono queste parole per lei?
«Su questa domanda potrei scrivere sessanta racconti, e già sono ben oltre lo spazio concessomi».
Dopo gli “Inciampi”, cadute o balzi?
Balzi, sicuramente. Dedicati a Dante (mio figlio di un anno, non quell’altro).