“Il parruccaio di Maria Antonietta” su La Sicilia
La Sicilia
26 gennaio 2017
Genialità e passione del parruccaio della regina
Nel 1985 la Longanesi diede alle stampe un romanzo, “Il profumo” di Patrick Süskind, che aveva furoreggiato come feuilleton tra i lettori del “Corriere della Sera”. Racconta la storia di un profumiere, Jean-Baptiste Grenouille, vissuto nella Francia del Settecento, ossessionato dall’idea di creare il profumo perfetto. Alla fine ci riesce, senza però ricavarlo dai fiori, come sarebbe naturale, ma dall’odore che emana la pelle delle giovani donne. La tecnica è la stessa, la tecnica dell’enfleurage. Ma se con i fiori è semplice, basta immergerli nel grasso per estrarne le essenze, con le persone è altra storia. Bisogna ucciderle. E lui, pur di raggiungere il folle progetto, ne fa strage. Una storia forte, granguignolesca, che tuttavia riscuote un immenso successo nel mondo. A distanza di più di trent’anni uno scrittore italiano, Alberto Frappa Raunceroy, con “Il parruccaio di Maria Antonietta”, Arkadia Editore, prende spunto da quella storia pazzesca per ricavare un’altra quasi parallela, ambientata a Parigi poco prima degli anni della rivoluzione francese e che si conclude con la fine dell’ancien regime. Il protagonista, Jules-Henry-Salomon, soprannominato Salamandre, è anch’egli un disadattato che vive nei cimiteri, come un relitto, prima di diventare ricco e famoso. Non è profumiere, ma parruccaio. Confeziona parrucche impreziosendole con le elitre degli scarabei che raccoglie nelle campagne e più tardi si farà spedire dalle Americhe. Le elitre sono le corazze multicolori che ricoprono il dorso dei coleotteri e che si aprono per liberare le ali e consentire il volo. Il risultato è sorprendente, sontuoso, abbagliante, al punto che le donne dell’aristocrazia, ancora immerse nelle frivolezze e nelle dissipazioni del moribondo regime, ne vengono stregate e fanno la fortuna del suo inventore. La prima parte del romanzo è l’ascesa di quest’uomo geniale ed emarginato dalla gente per una voglia violacea che gli copre una parte del viso fin sotto la cute. Non sarebbe brutto, ha occhi azzurri, malinconici e penetranti insieme, una certa prestanza fisica, se non fosse per quella macchia. Come Jean-Baptiste, non ama le donne, anche se non le uccide. Ama la solitudine, il lavoro, dorme poco, vive da allucinato. Arriva a drogarsi con l’oppio e il laudano per resistere alla fatica, alle angosce. L’ambiente ricorda le viuzze anguste e miserabili in cui si muovono i personaggi di Eugène Sue nei “Misteri di Parigi”, le taverne, le prostitute, i ladri, i prepotenti. Ma è il lavoro creativo di Salamandre a metterlo al riparo dalla perdizione. La seconda parte cambia registro. Salamandre attraversa il fuoco dell’amore e, diversamente dal suo epiteto, si brucia fino a morire. E’ la regina Maria Antonietta, la donna che gli apre il cuore, prigioniera con la famiglia nella Torre del Tempio. E’ una passione in punta di piedi, la sua, a testa china, mentre lei, la regina, dopo averlo temuto, lo tratta da amico, ne accetta la devozione, fino a quando sale sul patibolo con uno straccio di vestito e una cuffietta, magra da fare impressione. Quando la sua testa cadrà nel cesto non ci sono lacrime né emozione, solo le risate sguaiate delle tricoteuses che sferruzzano là sotto. Se da regina è stata una donna malmaritata, amante del lusso e delle frivolezze, durante la prigionia dimostra di essere una madre e una moglie esemplare. Ciò che più colpisce di questo libro è la sapienza descrittiva degli ambienti, la mancanza di retorica, la capacità di rendere vero il verosimile. Al pari del protagonista di Süskind, anche Salamandre è un uomo senza ombra, come Peter Schlemihl di Adelbert von Chamisso che vende la propria ombra al diavolo in cambio di un sacchetto di monete d’oro (Goethe, probabilmente, lo copierà mettendo nel Faust l’anima al posto dell’ombra). Un uomo senza ombra, questa l’intuizione di Chamisso, è un uomo a metà. Ora, a ragionarci, Salamandre è di quella specie misteriosa, un essere che vive nel buio e non cerca la luce, e quindi non possiede proiezione di sé. La sua luce è il riflesso opalescente dei suoi coleotteri.
(Piero Isgrò)