Sangue imperiale in Sololibri.net

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Sangue imperiale di Fabio Sorrentino

 

27 maggio 2016

Jack lo Squartatore sui colli fatali, che non sono però i sette dell’Urbe, ma le alture che fanno da corona alla piana dell’agro campano. Non c’entrano nemmeno il XIX secolo e il serial killer londinese, anche se nel thriller storico “Sangue imperiale” vengono anticipate le modalità efferate dei suoi omicidi, in uno scenario sul finire del I dopo Cristo. Apparso nel novembre 2013 (Arkadia Editore, Cagliari, pp. 254, euro 16,00), è il secondo romanzo di ambientazione storica romana del napoletano Fabio Sorrentino e come il precedente (“Ante actium. Il destino di un guerriero”, Giannini, 2010) sarà tradotto e pubblicato in Spagna. L’autore è un ingegnere civile trentatreenne di San Giorgio a Cremano, con una grande passione per la lettura e la scrittura, in particolare di storia greca e romana. Ha studiato a fondo gli usi e costumi classici ed è un valido giallista, capace di tenere legati i lettori alle avventure movimentate dei suoi protagonisti in peplo e calzari. Dunque, nell’ager campanus è in azione un antenato di Jack the Ripper, che si accanisce sulle prostitute di un lupanare, un bordello dell’epoca – a Roma le meretrici erano chiamate “lupe” – in una cittadina ricca e tranquilla, Liternum, fondata dai veterani che avevano combattuto a Zama al comando di Scipione l’Africano. Giorni crudeli all’ombra del Vesuvio – non vicinissimo, per la verità, siamo nei pressi del lago Patria e del litorale Domizio, a nord di Pozzuoli – ma non è che a Roma siano tempi più facili, visto che l’imperatore Domiziano non è estraneo a nefandezze e la politica del terrore è una delle sue specialità. Epperò, il pur crudele divino Cesare non arriverebbe mai a sventrare le vittime e sistemare le viscere intorno al collo, a mo’ di monili, come fa invece l’assassino delle prostitute nella Campania Felix. In questo è tale a quale allo Jack vittoriano dei bassifondi londinesi. In aggiunta, il meretricida cava gli occhi e la lingua alle vittime. Ciononostante, l’imperatore resta un gran poco di buono. Sebbene senza ostentazione di sangue e interiora, ha fatto sparire negli ultimi anni un bel numero di senatori, patrimoni compresi. Nel caso di altri, si è limitato a chiedere la condanna a morte o l’esilio, ma solo dopo aver incamerato il meglio dei loro beni. Siamo nei primi di settembre del 96 d.C. e mentre cavalca nel caldo soffocante, il liberto siculo Labieno è sempre più pensieroso, mentre accompagna, il sovrintendente dei Castra Peregrina, giovane padrone che lo ha reso libero cittadino. Il fidato servitore ed ora amico è perplesso per l’incarico affidato dall’Augusto proprio a Tribonio Macrino, princeps peregrinorum che comanda a Roma i frumentarii e gli speculatores, vale a dire la “polizia” e i “servizi segreti” dell’impero. Il suo grado equivale al primo centurione di una legione, troppo per un caso di scannamenti postribolari tanto lontano dalla capitale. Una volta si prosperava a Liternum, tappa obbligata, fuori della zona paludosa, sulla via del porto di Puteoli e delle amene località della costa campana. Ora si muore di paura. Qui c’è qualcosa sotto e la capitale non sembra estranea, ma più dell’assassino sono insidiosi i complotti di Palazzo, ai danni di tutti: dell’imperatore, di chi gli è contro e di chi è contro chi collabora con chi lo ostacola. La prima cerchia di malfidati porta diritto alla divina augusta imperatrice, Domizia Longina, manipolatrice mica da niente e le congiure non si contano, a cominciare da tredici anni prima, tutte punite dall’empio Domiziano, facendo dispensare colpi di gladio e ascia. Tante le teste nobili cadute, drammatico il terrore seminato anche in Senato. L’imperatore figlio di imperatore (il padre era Vespasiano) aveva dato sfogo alle sue paranoie di accerchiamento. Rappresaglie e repressioni preventive avevano colpito politici e intellettuali, la cultura e la satira erano state bandite dall’Urbe e i cristiani se la passavano peggio, perseguitati e uccisi nei modi più crudeli. Il popolo, invece, era dalla sua parte, fidelizzato con regali ed elargizioni di grano, tra una festa pubblica e un torneo gladiatorio alla presenza del divino in persona. A Roma si combatte nell’arena, per il piacere dell’imperatore e del popolo. Dagli spalti parte l’ordine verso il gladiatore che incombe sullo sconfitto:iugula (taglia la gola) e il sangue bagna la terra. Anche nel Palazzo si combatte una guerra sordida, tutti contro tutti e guai a sbagliare: è difficile scegliere il campo giusto nell’Urbe, alla viglia del 100 dopo Cristo.

(Felice Laudadio)


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