Paola Musa su Dol’s Magazine
Dol’s Magazine
11 novembre 2014
Quelli che restano
Quelli che restano perché non se ne possono andare e quelli che restano per dovere. L’ultimo libro di Paola Musa, poetessa imprestata alla prosa, da sempre attiva nel sociale, si occupa di carcere femminile, usando un espediente letterario, “il flusso di coscienza”. Paola Musa, nata in Sardegna nel 1966 ma vive da molti anni a Roma, dove si era trasferita per seguire l’Università di Lingue. Scrittrice, paroliera e autrice teatrale, è sempre stata estimatrice della poesia che l’ha accompagnata per tutto il suo percorso artistico. Sposata con un musicista, ha un figlio ormai grande di 17 anni. Ha lavorato per anni in diverse aziende, ma negli ultimi tempi si occupa soltanto di scrittura.
Sei un amante della scrittura, ma cosa hai scritto?
Ho scritto per il teatro, canzoni per diversi artisti, e nel 2008 ho pubblicato il mio primo romanzo, CONDOMINIO OCCIDENTALE, che è stato portato in scena in diversi teatri romani da attori vedenti e ipovedenti e ha ottenuto alcuni premi.
Quindi tematiche sociali?
Sì, mi sono sempre occupata di tematiche sociali, anche se non in tutti i miei progetti. CONDOMINIO OCCIDENTALE (Salerno editrice) ad esempio, scritto nel 2007, parla del fenomeno delle nuove povertà. Avevo già delineato a quel tempo la deriva e l’impoverimento della classe media. Rai Fiction ha acquisito i diritti del romanzo per un film TV che stanno girando in queste settimane. Il secondo romanzo, IL TERZO CORPO DELL’AMORE (Salerno editrice), non è strettamente un romanzo sul sociale, anche se parla di una adolescente bulimica che subisce una serie di violenze dal suo ambiente, psicologiche e fisiche.
E la poesia l’hai lasciata da parte?
No, come dicevo mi sono sempre occupata di poesia. Nel 2012 è uscita la mia prima raccolta (sebbene altre sillogi più brevi siano apparse, anche in riviste internazionali), ORE VENTI E TRENTA (Albeggi edizioni): uno spaccato sugli “invisibili” nelle periferie delle metropoli. Per Albeggi edizioni curo anche un blog, LAPOESIACHESERVE, che raccoglie poesia di impegno civile.
Ci parli del tuo ultimo romanzo?
Il romanzo QUELLI CHE RESTANO (Arkadia Editore), uscito l’ottobre scorso, è quindi in continuità con molti dei miei lavori, anche se devo ammettere, è stato il più difficile da affrontare. Sappiamo infatti tanto sulle condizioni carcerarie, molto poco sulle condizioni lavorative e psicologiche di chi ci lavora. E’ stato un lavoro di indagine molto lungo e impegnativo, soprattutto perché non ho mai avuto modo di entrare in carcere. Ho studiato con attenzione i blog della categoria, gli articoli e le inchieste disponibili, e gli unici contatti “diretti” li ho avuti con un ex poliziotto penitenziario (soprattutto per il linguaggio carcerario) e con una ex ispettrice di polizia del carcere di Rebibbia. Il problema era raccogliere tutte quelle informazioni, e inserirle in un contesto narrativo di senso. Così ho inventato il flusso di coscienza di Elena, una poliziotta penitenziaria, fino a renderla verosimile. Ho sottoposto il manoscritto a queste due persone, prima di farlo editare. A loro dire, sembrava dalla storia che avessi lavorato in carcere per 20 anni. Quando scrivo di un argomento nuovo, ne scrivo soprattutto per comprenderlo. In questo caso m’interessava studiare e mostrare gli effetti psicologici e sociali di un di un lavoro così usurante: la depressione degli operatori ad esempio, la violenza che ne scaturisce. E’ la denuncia di un universo a parte, in cui la contiguità di carcerati e carcerieri non permette sempre e chiaramente la distinzione tra vittime e carnefici, giacché siamo tutti l’uno o l’altro, in circostanze diverse.
E delle donne in carcere hai parlato delle detenute o delle lavoratrici?
Entrambe. Infatti altro aspetto che intendevo indagare e su cui insisto sul libro, è la donna in carcere, sia come lavoratrice, sia come detenuta. Il carcere è, infatti, un’istituzione fortemente maschile e paternalistica. Nel libro si accenna anche al cambiamento della detenzione femminile. Fino a pochi decenni fa, infatti, le donne che finivano in prigione erano considerate deviate dall’errore (prostituzione, matricidio), e non agenti di un reato vero e proprio.
Insomma, di spunti nel libro ce sono tanti.
‘E’ un libro che riporta l’attenzione sulla complessità del vivere perché non esistono eroi e vittime, carcerieri e carcerati come maschere, caratteri che da soli possano riassume l’identità di un individuo” Ilaria Guidantoni
(Caterina Della Torre)